I suoi compagni erano brutti, sporchi e cattivi. Lui solo cattivo. Che a vederlo non avresti detto. Perché sapeva anche sorridere. O era un ghigno? Di sicuro appariva elegante ed educato. Persino quando in campo le scarpe dribblavano nel fango. Lo chiamavano Kaiser e c’entrava una certa altezzosità e distacco. Del resto, ai Grandi non è richiesta l’empatia. Franz Beckenbauer, deceduto a 78 anni, era così.
Gli dei del calcio gli avevano regalato una classe immensa. Sembrava planasse sull’erba e ogni gesto sapeva di raffinata tecnica. Figlio di quella Germania uscita devastata dalla guerra aveva trovato nel pallone lo strumento di un riscatto possibile. Un padre postino, madre casalinga e uno zio che giocava benino a pallone. Franz già a vent’anni insegnava calcio nel tempio di Wembley. Finale Mondiale, quella del ’66. Una possibile rivincita non cruenta della guerra persa. Contro gli odiati inglesi. Finì come finì. Male per i tedeschi con un gol fantasma che non c’era bisogno della Var per annullarlo, bastavano occhi sani e coscienza pulita. Che l’arbitro russo non voleva usare. Vero che c’era la regina Elisabetta in tribuna e così certe cose si spiegano. Da allora il mondo del pallone cambiò. E lo descrisse bene Gary Lineker quando disse che «il calcio è quel gioco dove si gioca undici contro undici e vince sempre la Germania».
Infatti da quel momento il Wunderteam, se andava male, arrivava in semifinale. E a guidarlo c’era sempre lui. Dal campo e fuori. Raccontano che ai Mondiali del 1974 in Germania fece fuori il commissario tecnico Helmut Schön e gli concesse solo di sedersi in panchina. La squadra la decideva Kaiser Franz. E lui metteva sempre in campo i suoi amici e lasciava fuori i rivali. I compagni «brutti, sporchi e cattivi» del Bayern di Monaco. Gente come Sepp Mayer, Paul Breitner, Gerd Muller e Uli Hoeneß.
Non si sono mai persi di vista anche quando la Baviera li guardava da lontano. E il rivale era Gunther Netzer del Borussia Mönchengladbach che gli toccò emigrare al Real Madrid. Il biondo centrocampista profeta di un’altra Germania. Più sbarazzina e incosciente. Beckenbauer era un Kaiser vero e quella finale la portò a casa, sebbene con l’onta di perdere con l’altra Germania nel girone di qualificazione. Il mondo, tranne Gianni Brera, sbavava per gli olandesi. Loro sì belli, puliti e gentili. Con i capelli al vento e le mogli in ritiro. La marea arancione che non c’era diga capace di arginare. E in finale segnò al primo affondo. Poi il Kaiser alzò la testa.
Con la Coppa dei Campioni del ‘76
Beckenbauer vinse due Palloni d’Oro
Due anni dopo, nel 1972, il titolo europeo e il primo Pallone d’Oro. Il secondo arrivò nel 1976.
Ma intanto aveva già vinto tre Coppe dei Campioni consecutive. Un riconoscimento obbligato per un fuoriclasse che non aveva bisogno di trofei per legittimare il suo essere al di sopra del cielo (calcistico). Non si fece mancare di giocare insieme a Pelè in quei Cosmos che erano il campionato degli sceicchi mezzo secolo in anticipo. L’arrivo in America gli costò la vendetta di Schön che mica poteva convocare per i Mondiali uno che giocava in quel circo Barnum, anche se si chiamava Beckenbauer. Finiva qui il primo tempo del più iconico calciatore tedesco di ogni epoca.
Chinaglia, Pelè e Beckenbauer con i Cosmos (Ap)
Da allenatore vinse Italia 90
Da allenatore si accontentò di rivincere i Mondiali quelli del 1990 in Italia. Uno dei tre, insieme a Zagallo del Brasile e Deschamps della Francia, a vincerlo in campo e a bordo campo. Da dirigente scalò le vette del suo Bayern e anche quelle della Fifa. Con qualche caduta di troppo. Ma nessuna di stile. C’è un calcio prima di Beckenbauer e uno (bellissimo e sublime) con lui. Il dopo Kaiser sarà come una birra senza schiuma.
(Articolo in aggiornamento)
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2024-01-08 17:37:30 ,