All’inizio, Building Stories era un libro sulle storie degli abitanti di un palazzo. “Lavorandoci – spiega l’autore – mi sono accorto che tutte queste storie erano in realtà viste attraverso gli occhi di un unico personaggio principale, una donna che vuole essere un’artista o scrittrice e si ritrova a essere una madre. Negli USA c’è l’idea che questo sia mutualmente esclusivo; non penso che sia vero, e inoltre ritengo che essere una madre sia molto più importante che essere un’artista”. L’obiettivo di Ware è scoprire l’altro; conoscere e raffigurare gli sconosciuti, “cosi come facciamo tutti ogni giorno quando incontriamo una persona e ce ne raffiguriamo un’immagine mentale”.
In un certo senso, anche Building Stories è stata una scoperta continua per il suo stesso autore. Il formato così insolito è nato da un’esigenza letteraria, e non viceversa. “Ero più o meno a un quarto dell’opera quando mi sono accorto che il formato originale non era adatto. Che c’era bisogno di una struttura diversa”. Certo, Ware è notoriamente maniacale per la cura che ripone nei più piccoli dettagli, anche a livello editoriale, grazie al suo background di artista, scultore, grafico editoriale di giornali: “Quando lavoro preparo prototipi, mando indicazioni molto precise agli editori, per semplificare loro la vita ma probabilmente anche per mandarli in bancarotta”, scherza, riferendosi ai costi esorbitanti collegati alla produzione delle sue opere – che sono anche la ragione principale per cui Building Stories è arrivato solo ora in Italia, dopo 10 anni dalla pubblicazione originale.
“In genere, lo sguardo del lettore attraversa un libro per concentrarsi solo sul contenuto; i fumetti sono un mezzo visivo, e quindi voglio che anche l’oggetto sia visto e considerato”, spiega l’autore. Anche per questo il rapporto di Ware con il disegno è incentrato sulla carta più che sui nuovi medium: “Ho provato il disegno digitale, ma per me è come avere qualcuno che ti respira in bocca. Un’esperienza invasiva e insoddisfacente. C’è qualcosa nella fisicità della carta che non si può rimpiazzare. Come il nostro corpo”.
Se interrogato sull’ontologia della sua opera, Ware sposta costantemente il discorso su quello che davvero gli interessa: l’essere umano. “Penso che il libro, come oggetto, sia una metafora perfetta dell’uomo”, insiste. “Ognuno ha una copertina che può dire il vero sui contenuti che ci sono all’interno, o magari mentire; e di ognuno è più grande l’interno che l’esterno”.
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di Andrea Curiat www.wired.it 2022-10-29 11:01:02 ,