di Lorenza Negri
Arsène Lupin, il ladro della letteratura francese creato da Maurice Leblanc, vanta svariate incarnazioni: le più famose recenti, la popolare serie Netflix di ambientazione contemporanea e Lupin III, manga – e cartone – giapponese. Incentrato sul nipote dell’imprendibile ladro gentiluomo, è il protagonista dei fumetti di immenso successo di Monkey Punch fin dalla fine degli anni ‘60. In Italia, assieme a Capitan Harlock e Ken il guerriero, è un’icona popolarculturale grazie a tre trasposizioni animate seriali e almeno un film – il meraviglioso Castello di Cagliostro di Miyazaki – indimenticabili. In questo articolo ci limiteremo a ricordare solo le prime tre serie a cartoni, per tenerci la miriade di oav, (molti reperibili su Amazon Prime Video) crossover, un live action con Shun Oguri, un film in Cgi e una versione teatrale Takarazuka per altre occasioni. Perché gli vogliamo così bene? Ecco cosa rende Lupin III mitico.
Lupin, uno e trino
Monkey Punch amava i film bondiani e i polar francesi, roba da adulti. Il suo protagonista era invero “bondiano”, un uomo egocentrico, adrenalina-dipendente, sempre sul filo del rasoio, amante dei piaceri e del lusso, delle macchine veloci e delle donne, una diversa ogni notte. Il primo Lupin era uno con cui non si scherza, astuto, audace, ironico, francamente il tipo di avversario con cui è meglio non confrontarsi. Il Lupin consegnato (che non piaceva al suo autore) è quello messo a punto tra la metà della prima stagione e la seconda, la sua versione “meno pericolosa”: arguto, infallibile e inafferrabile ma senza essere un criminale pericoloso e spietato; geniale, divertente e burlone, che passa dal guidare la vistosa e stilosa Mercedes Benz Ssk alla mitica ma più alla mano Fiat 500 classica. Non infierisce sui deboli e ha un’unica donna nella sua vita, la femme fatale da cui si lascia puntualmente fregare, Fujiko/Margot. Un mito che incontra altri miti, (reali e fittizi, come Niki Lauda e Lady Oscar). A renderlo irresistibile, tutte queste cose, ma soprattutto il fatto che incarni un sogno proibito di libertà totale, di essere fuori, anzi oltre, la legge.
Un Lupin per ogni giacca
La storia televisiva di Lupin inizia nel 1971 (da noi nel 1979) dopo un tentativo di adattamento cinematografico allora considerato troppo adulto, troppo fedele all’originale cartaceo, troppo intriso di sesso e violenza. La sua versione edulcorata per il piccolo schermo, messa a punto da Hayao Miyazaki e Isao Takahata molti anni prima di fondare lo Studio Ghibli) ammorbidisce il tratto duro di Punch e il registro maturo da polar francese. Il primo Lupin è quello dalla giacca verde della prima versione per la tv firmata dall’irremovibile Maasaki Osumi, con il suo tratto poco pulito e la palette cromatica scura. Il Lupin più popolare è quello che indossa la giacca rossa, vera icona degli anni ‘80: 155 episodi realizzati nell’arco di tre anni, tra il 1977 e il 1980 nei quali il ladro si attesta come la versione più riconosciuta e venerata. A metà degli anni ’80 debutta il Lupin dalla giacca rosa, sua caricatura, clownesca, infantile, e postmoderna.
La rivoluzione della femme fatale
Fujiko, la fanciulla dai seni maestosi e appuntiti (le vette che ricordano il monte Fuji a cui fa riferimento il nome) è la femme fatale per eccellenza, irresistibile, audace, infedele, amante del lusso e della lussuria. Lontana dal modello asiatico, e in particolare nipponico, di bellezza femminile, esile, dalle forme impercettibili e delicate, dall’indole remissiva e dalla sensualità discreta, Fujiko/Margot ha portato avanti una rivoluzione sessuale da sola con la sua voluttà prorompente. Disinibita, procace, ambiziosa, indipendente, seduttrice e traditrice, si rifà alle sinuose e indomabili seduttrici dei noir francofoni, la prima icona femminile di questo tipo a conquistare il mondo dell’animazione nipponica, e una figura seminale anche in Occidente.
Jigen, Goemon e Zazà
Il successo del mito Lupin molto deve ai suoi comprimari. Ognuno è iconico, a partire dal serio, saggio e diffidente Jigen, pistolero infallibile più duro di Clint Eastwood e purista che disdegna le armi automatiche (spara solo con revolver, meglio se la S&W Model 19 calibro .357 magnum), indossa un fedora la cui tesa lo aiuta a prendere la mira e ha perennemente una sigaretta spiegazzata in bocca. Goemon, bel tenebroso discendente del noto bandito del XVI secolo Goemon Ishikawa, giapponese silenzioso in abiti tradizionali e spadaccino provetto che se ne sta appollaiato sulla 500 di Lupin. E poi Zenigata detto Zazà, detective dell’Interpol avvolto in un impermeabile stropicciato che si nutre di ramen e finisce sempre gabbato. Più iconici di così si muore.
La versione italiana
Spesso predichiamo la “versione originale”: i film e le serie nella madrelingua, con le interpretazioni degli attori che hanno creato i propri personaggi dandogli loro accento intonazione e così via. Tuttavia, il discorso per i cartoni è un po’ diverso, e il doppiaggio nostrano degli anime ha fatto miracoli – valga l’esempio di Slam Dunk – tanto che è inquietante pensare a Lady Oscar senza la voce di Cinzia De Carolis, Pegaus senza il kyah di Ivo De Palma, Lupin senza la risata di Roberto Del Giudice. Non solo, in patria abbiamo sfornato anche sigle di anime intramontabili: prime che sciape canzoncine soppiantassero quelle di Cavalieri del Re & co. Il caso di Lupin, che già vantava le belle musiche di Yūji Ōno, è ancora più memorabile: dalla non appropriatissima (eppure indimenticabile) Planet O alla bellissima sigla di Lupin con la fisarmonica di Migliacci e Micalizzi, riproposta a tutte le sagre di paese prealpine per i trent’anni successivi.
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www.wired.it
2022-01-12 15:30:00