Maroni, gli anni da ministro del Lavoro e il «salvadanaio» delle riforme

Maroni, gli anni da ministro del Lavoro e il «salvadanaio» delle riforme

Maroni, gli anni da ministro del Lavoro e il «salvadanaio» delle riforme



La figura di Roberto Maroni è indissolubilmente legata, per me, alla fervida stagione del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Una stagione fervida perché legata al tentativo di riformare strutturalmente il mercato del lavoro italiano, a creare una rete di politiche sociali attente ai bisogni delle persone, a spiegare in Europa che occorreva flessibilità e pro-attività per rilanciare lo sviluppo e la crescita. Maroni, con grande lucidità generosità e consapevolezza credette in quel progetto riformista che Maurizio Sacconi, Marco Biagi, il sottoscritto ed altri avevamo costruito nei primi mesi di quel Governo Berlusconi e ci diede «mano libera» nel continuare quell’opera che egli aveva deciso di guidare.

La tragica morte di Marco Biagi non lo fece deflettere e tergiversare neppure un minuto. Pure se tutte le nostre vite cambiarono, da allora e fummo tutti messi sotto un regime di sicurezza massima, l’obiettivo rimase lo stesso: dare all’Italia regole e pratiche per maggiori assunzioni e migliori opportunità di lavoro. Lo spirito di concretezza di uomo del Nord – tratto che ha caratterizzato tutta la sua vita – lo spingeva a pensare e ragionare per quella parte viva e imprenditrice della società italiana, quegli «spiriti animali» che tanto hanno contribuito alla crescita dell’economia del nostro Paese, estendendo per la prima volta il sistema di cassa integrazione per le imprese più in difficoltà che non ne potevano beneficiare.

Meno nota ma anche più subdola fu l’opposizione alle sue politiche sociali, l’accusa costante di tagliare le risorse ai poveri e ai deboli, di distruggere il welfare, propagandata dalle forze massimaliste della sinistra; accuse anche queste infondate perché sempre alta è stata l’attenzione di Roberto Maroni per gli ultimi, per i disabili, una attenzione però fatta non di assistenzialismo, ma di politiche di reinserimento sociale e lavorativo. Per questo aveva portato al Ministero la sua sensibilità fondata sulle politiche dei comuni del Nord, la sensibilità per i fatti concreti e non per le parole sbandierate. Un ministro attento al panorama internazionale, curioso a quello che si muoveva fuori dall’Italia, che volle visitare tutte le capitali europee per presentare il semestre di Presidenza italiana e per offrire ai suoi colleghi la visione di un «barbaro leghista» (che non era!), per stare a come si sarebbe definito in seguito. Una visione che venne unanimemente apprezzata, anche da quelli che erano più distanti dalle sue posizioni politiche.

Memorabili, nel mio ricordo, le serate con alcuni colleghi stranieri in località europee a volte sperdute, con il ministro italiano ai tasti di un pianoforte, prima di accesi dibattiti nelle sedi del Consiglio dei ministri del Lavoro (che non amava troppo perché troppo teoriche e paludate). Varese era il suo punto di riferimento sempre. Le origini della sua storia umana e politica non venivano mai tradite e dimenticate. La sua capacità di creare un gruppo e una squadra vincente – come il suo Milan di allora – e la sua lucidità diedero luogo a una stagione di riforme che i suoi successori – tranne uno – purtroppo tradirono, in nome di cieche ideologie. Mancherà ai suoi figli, mancherà alla politica, mancherà alla «sua» Lega, ma soprattutto mancherà a un mondo che a volte si prende troppe volte sul serio. Oggi ne avremmo avuto tanto bisogno, così come del suo «salvadanaio delle riforme», quello in cui dovevo versare 5 euro quando entravo nel suo studio portando un problema e non una soluzione. Ci mancherà proprio questo.

*Economista del lavoro, a più riprese responsabile della segreteria tecnica del ministero del Lavoro



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