Un itinerario sui passi falsi. Le piste colpevolmente abbandonate, le mani leste che hanno sottratto prove, le coperture che hanno protetto la fuga, gli affari che governano l’intima necessità della sua libertà. Un percorso di guerra tra nemici riconoscibili e molti dalla doppia e tripla identità, annidati ovunque. Cecchini anche ai piani alti dei palazzi che contano, la politica, la magistratura, gli apparati investigativi e dei servizi, capaci di sparare a vista con precisione millimetrica per atterrare i cacciatori.
Anche per questo, una preda come Matteo Messina Denaro, diventa un «latitante di Stato» come lo è nel titolo del saggio inchiesta che Marco Bova ha scritto per Ponte alle Grazie, con la prefazione di Paolo Mondani.
La biografia, al limite del mitologico, della quasi trentennale latitanza dell’ultimo dei padrini stragisti dell’ala corleonese in circolazione, rimane, come è giusto, sullo sfondo in una ricerca che è densa di dettagli.
Messi in fila, squadernano una sceneggiatura più sconcertante della pur prolifica produzione sul tema. Ne viene fuori un’analisi puntigliosa delle tracce cancellate che hanno allungato i giorni e gli anni della fortuna di un boss, nato nella culla dell’intreccio tra mafia e massoni. In quella provincia trapanese che coltiva il potere con la formidabile arte di dosare segreti e misteri, per conservare l’essenza di una Cosa nostra capace di adattarsi alle circostanze, pur di mantenere il proprio predominio.
Grande distribuzione, turismo, energie rinnovabili, sanità, produzione vinicola, fondi pubblici, tanti e a precipitazioni, grandi eventi. Nulla sfugge ai mafioimprenditori protetti dal cartello che ha in Matteo e nel suo esteso clan familiare le leve che muovono tutto.
Un dialogo telefonico con il sottosegretario Antonino D’Alì, discendente della genia che ebbe il padre del latitante, Francesco, come campiere, condannato a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa, è un capolavoro di inventiva cinematografica. Ma è stato raccontato a verbale in procura generale nel 2015 dal vicequestore Giuseppe Linares. Perché purtroppo non è una fiction. Siamo nel gennaio del 2002, all’indomani di una retata condotta dal poliziotto che per 14 anni, da capo della Mobile, ha dato la caccia a Messina Denaro. «In quella occasione D’Alì si congratulò pacatamente dell’operazione, e mi disse testualmente “Sarebbe il caso che lei se ne andasse”, e mi disse che ero troppo esposto. Il tono era algido». Un consiglio da amico o, se preferite, un’offerta che non si può rifiutare da parte del ras forzista che aveva fatto di tutto per far saltare la poltrona di Linares, riuscendoci con il compianto prefetto Fulvio Sodano.
Tra «covi caldi» e «cerchi che si stringono», le cronache riattizzano periodicamente l’attenzione su un latitante che riesce a farla franca da 28 anni, avendo contro, sulla carta, praticamente tutti: polizia, carabinieri, finanza, perfino i forestali. E, naturalmente gli 007 che fissano pure sostanziose taglie che alimentano un indotto della ricerca già di suo consistente. Mettere d’accordo tutti i cacciatori è il primo problema, per evitare sovrapposizioni. È accaduto anche che nella foga di spiare le mosse dei sodali dell’imprendibile i finanzieri abbiano sorvegliato dei poliziotti e poliziotti e carabinieri si siano trovati in contemporanea sullo stesso teatro di osservazione.
Per il resto, cimici che smettono di funzionare, che i familiari di Messina Denaro rintracciano con provvidenziali bonifiche, talpe che soffiano dettagli salvifici, punteggiano interi paragrafi di questa «corsa avvelenata».
Nel suo lavoro, Bova ricostruisce con l’aiuto del protagonista, deceduto nel maggio scorso, il carteggio epistolare intrattenuto tra Alessio, alias Matteo Messina Denaro e Svetonio, lo pseudonimo affibbiato dal latitante all’ex sindaco della sua città, Castelvetrano, il professore Antonino Vaccarino, infiltrato dai servizi con l’obiettivo della cattura ma poi inspiegabilmente bruciato.
Una deli morti incruente, almeno tante quante quelle lasciate per strada con il piombo, del sistema Messina Denaro. Capace di stritolare e annichilire gli avversari anche con l’arma della legalità, vera o presunta. Pende ancora a Caltanissetta, per dire, l’inchiesta sulla misteriosa sparizione dell’archivio delle indagini condotte per anni dal pm, poi procuratore aggiunto, Teresa Principato. Nel 2015, il suo braccio destro, Carlo Pulici finì denunciato per molestie, e subì improvvisamente l’ostracismo della procura di Palermo, guidata da Franco Lo Voi, ritrovandosi nel gorgo del désordre giudiziario che servì a sbarrare la strada alla procura di Roma di Marcello Viola, allora procuratore a Trapani. Pulici, assolto da tutto dopo 5 processi, ha dovuto pensionarsi dalla Finanza che aveva tagliato fuori dalle inchieste un altro solerte investigatore, Carmelo D’Andrea. Viola, è uscito a testa alta dall’accusa di aver ricevuto sottobanco proprio da Pulici verbali del pentito Giuseppe Tuzzolino, legati alle ricerche di Messina Denaro che era legittimo che avesse. Ma a Roma non è mai arrivato. Teresa Principato, che al suo braccio destro aveva confidato lo sconforto per le domande a cui era stata sottoposta dai colleghi, ha avuto il suo quarto d’ora di tribolazioni, fino alla migrazione alla procura nazionale antimafia. Tuzzolino è stato bollato come falso pentito senza ulteriori approfondimenti sulla pista americana che pure aveva indicato. Così come è stata abbandonata la fonte Y che aveva iniziato a fidarsi di D’Andrea. E Matteo? Si sarà fatto una compiaciuta risata. Tanto più che il sassolino nell’ingranaggio della macchina delle ricerche gli ha permesso di conoscere una infinità di interessanti retroscena venuti a galla con l’inevitabile contorno di veleni.
Era già accaduto nel 2012, durante lo scontro alla procura di Palermo, guidata allora da Francesco Messineo, poi arrivato da commissario regionale proprio a Castelvetrano, sulla opportunità di procedere a un blitz ad Agrigento. A giudizio di Teresa Principato, si era bruciata in quel modo l’ennesima pista per arrivare alla cattura. Come succede, ha precisato la magistrata, quando intorno ai personaggi chiave individuati si spande l’odore delle logge.
Lui, il latitante, è dappertutto e in nessun luogo. In Nord Europa e in Africa, in Turchia o a Dubai. A Castelvetrano e a Bagheria. Ad operarsi agli occhi a Barcellona, in vacanza nella Costa del Sol, in viaggio in barca per la Tunisia o per Malta, in volo su un piccolo aereo verso l’Inghilterra. Puntuale, come sempre nelle storie delle latitanze più eccellenti, è pure circolata voce che sia deceduto. E in tanti lo sperano. Scommettendo, che in caso di arresto aprirebbe la bocca. E per gli eccellentissimi protettori, sarebbe un inferno.
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di Enrico Bellavia
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2021-11-10 13:48:00 ,