Al partito che prenderà più voti spetterà indicare il premier. Che poi è la regola che il centrodestra ha seguito anche nel 2018. Di più, ossia l’incoronazione come leader della coalizione solo sulla base dei sondaggi, la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni non poteva ottenere. Di fatto il nodo premiership è stato rimandato a dopo il 25 settembre, quando dalle urne usciranno dati certi. Ma già aver sventato la soluzione proposta nelle scorse ore da Silvio Berlusconi, ossia che il premier fosse indicato dall’assemblea dei parlamentari del centrodestra neoeletti riunita, è un punto a vantaggio della “ragazza” della destra italiana. Il resto si vedrà.
Per l’intanto ogni partito si presenterà con il proprio simbolo e il proprio front man (o woman) e quindi candidato o candidata premier di bandiera: naturalmente Meloni per Fratelli d’Italia, Antonio Tajani per Forza Italia di cui Silvio Berlusconi, presente al vertice di ieri sera, resta padre fondativo e spirituale, e Matteo Salvini per la Lega. Un modo per non spaventare troppo l’elettorato moderato con l’indicazione preventiva della “sovranista” Meloni – è questa la preoccupazione del vecchio leader azzurro – proprio nel giorno in cui la sua ex prediletta Mara Carfagna lascia il gruppo di Forza Italia in polemica con la «sottomissione alla destra sovranista» del suo ex leader.
La preoccupazione dei vari leader del centrodestra, che per la prima volta si riuniscono nella sede istituzionale della Camera e non nelle ville private del Cavaliere quasi a sottolineare la fine della lunga epoca segnata dall’indiscussa leadership berlusconiana, è quella di dare un’immagine di «concordia» e di «compattezza». Soprattutto di fronte ad un centrosinistra ancora preda di veti reciproci tra centristi e sinistra e orfano del M5s di Giuseppe Conte lanciato verso una difficile corsa solitaria.
Ma è chiaro che la questione della premiership, sia pure fondamentale, non è l’unica a dividere i tre partiti e i loro piccoli alleati centristi (presenti ieri al vertice anche Maurizio Lupi con la sua Noi per l’Italia e Luigi Brugnaro con Coraggio Italia). Lasciando sullo sfondo le differenze programmatiche, a partire dalla Ue con Forza Italia e centristi schierati con l’europeismo dei Popolari, c’è nell’immediato da definire lo schema delle candidature nei collegi: Fratelli d’Italia ne chiede, in base ai sondaggi, almeno la metà, mentre Forza Italia e Lega vogliono usare il metodo classico della media storica tra le ultime elezioni politiche (2018, quando Fratelli d’Italia prese appena il 4% mentre ora i sondaggi volano oltre il 20% facendone il primo partito della coalizione), le ultime elezioni a livello nazionale (europee del 2019, quelle in cui Salvini portò la Lega al 34%) e i sondaggi attuali. Tenendo anche conto, è il ragionamento del leghista Roberto Calderoli che per l’occasione rispolvera uno dei suoi famosi algoritmi, del radicamento territoriale dei partiti: un modo per sbarrare la strada a Meloni nelle regioni del Nord relegandola nel Centro-Sud.
Il primo vero tentativo di mediazione arriva a un certo punto da Fi: 90 candidature “sicure” a Meloni e 60 agli altri due partiti. Ma è ancora troppo poco per Meloni e troppo, agli occhi degli alleati, per Berlusconi. L’incontro prosegue e alla fine si chiude anche la partita dei 221 collegi uninominali. L’intesa sul criterio della loro distribuzione si baserà sulla selezione dei candidati più competitivi in base al consenso attribuito attualmente ai partiti. In sostanza: 98 seggi a Fdi, 70 alla Lega, 42 a Forza Italia, compreso l’Udc, e 11 a Noi con l’Italia più Coraggio Italia.