«Signore, sono senz’altro indiscreta, ma sono straniera. Mio marito a New York è scrittore, si chiama Antoine de Saint-Exupéry, forse avete sentito parlare di lui».
«Generale, vi presento mia moglie Consuelo; è spagnola ma parla inglese».
A ottant’anni dalla prima edizione de Il Piccolo principe (pubblicato il 6 aprile 1943 a New York, prima in lingua inglese, poi in francese) esce in libreria la traduzione italiana dei Mémoires de la rose: Memorie della rosa (Compagnia Editoriale Aliberti), l’autobiografia di Consuelo de Saint-Exupéry, moglie dell’autore di quello che è stato uno dei libri più fortunati (e venduti) del Novecento. Antoine e Consuelo si conobbero nel 1930 a Buenos Aires, in uno dei tanti party mondani che entrambi amavano frequentare. Consuelo Suncin Sandoval era una giovane donna di ricchissima famiglia, già vedova di un console; Tonio (così lo chiamavano gli intimi) de Saint Exupéry, esperto aviatore, era stato nominato direttore operativo della Compagnia Aeroposta Argentina.
Fu il più classico amour fou: e il matrimonio seguì l’anno dopo, nel 1931. Trasferitisi a Parigi, i due vivranno però un ménage tutt’altro che tranquillo. Se Antoine è uno spirito bohémien, eccentrico, libertario e libertino, Consuelo non è meno libera ed emancipata di lui. Il loro amore oscilla continuamente fra la fantasia poetica e la depressione. Fino alla nascita del mito di Saint-Exupéry: con il successo del Piccolo Principe e la morte eroica del suo autore, la figura di Consuelo – anche se mai esplicitamente nominata – sarà fissata e in qualche modo eternata nella rosa amata dal protagonista del libro. “È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”.
Così trasfigurata, Consuelo rischiava dunque di essere consegnata all’oblio come donna e come persona. La rivelazione al pubblico mondiale, nei primi anni Duemila, di un manoscritto redatto da Consuelo negli anni della Seconda guerra mondiale, ha cambiato tutta la visione che abbiamo di lei e del celebre marito. Consuelo scrive queste pagine a cuore aperto; racconta con un linguaggio vivace e pittoresco la vita di due enfants terribles che non possono fare a meno l’uno dell’altro: ma che la vita e un’irriducibile, reciproca voglia di libertà si ostinano a separare.
Ecco un estratto in anteprima esclusiva per i lettori de Ilfattoquotidiano.it
Mi piaceva quel bambinone di mio marito, e lui mi amava, lo sapevo. Ma voleva essere un marito libero e mi rimproveravo di farlo tornare da me ogni volta che avevo bisogno di pagarmi la camera, il cibo, il telefono. Ci baciammo a lungo, coi calici di champagne in mano, e ci giurammo che ci saremmo amati per l’eternità. E restò nel mio letto… ma alle cinque del mattino mi ritrovai sola, mezzo addormentata. Aveva lasciato un bigliettino, e un disegno grazioso che era il suo ritratto: un clown con un fiore in mano, molto imbarazzato, un clown maldestro che non sapeva che fare del suo fiore… più tardi seppi che il fiore ero io, un fiore molto orgoglioso, quello del Piccolo Principe.
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Quella dimora diventò la dimora del Piccolo Principe. Tonio vi continuò il suo manoscritto. Posavo per Il Piccolo Principe e anche tutti gli amici che ci rendevano visita facevano lo stesso. Tonio li faceva impazzire di collera perché, una volta finito il disegno, non erano più loro, ma un signore con la barba, o dei fiori, o degli animaletti… Era una dimora fatta per la felicità.
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Gide ci aveva offerto una prefazione per Volo di notte. Tonio era entusiasta, e anch’io. L’ammirazione di Gide, di Crémieux e di Valéry mi sembravano meritate.
Ma quando erano belle donne di Parigi a traboccare di ammirazione, mio marito arrossiva quasi, e allo stesso tempo impazziva per quei momenti. Allora il mio cuore cominciò ad arrossire di gelosia. Il mio sangue spagnolo si mise a bollire.
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Tonio arrivava a dimora con fazzoletti pieni di rossetto. Non volevo essere gelosa, ma diventai triste. Mi dicevano: «Abbiamo incontrato Tonio in auto con due donne». Mi rispondeva: «Sì, sono segretarie della NRF che mi hanno offerto un passaggio mentre andavamo in dimora editrice».
Parigi mi inquietava, ormai pensavo solo alle belle donne che lo assillavano.
Ah! È un mestiere, un sacerdozio essere la compagna di un grande creatore, un lavoro che si impara solo dopo anni d’esercizio… perché si impara. Ero una sciocca. Credevo di aver diritto anch’io all’ammirazione per la sua opera. Credevo che fosse di entrambi.
Che errore! Nulla per un artista è più personale della sua creazione: anche se gli si danno la propria gioventù, i propri soldi, il proprio amore, il proprio coraggio, non si possiede nulla.
È infantile dire: «Ah! Io ho aiutato mio marito». Innanzitutto non si sa se non è vero il contrario. Magari con un’altra donna lo scrittore avrebbe prodotto di più, sarebbe stato migliore. Di sicuro avrebbe potuto scrivere qualcos’altro. Certo, una donna aiuta un uomo a vivere, sempre, ma può anche rendergli il lavoro difficile. Ogni donna, dopo aver assistito a un’ora di conferenza di mio marito, sognava di essere l’amica, l’unica ammiratrice comprensiva e fedele del proprio autore preferito. Essere la musa del pilota di Volo di notte, del grande scrittore!
E in quei momenti bisogna tirar fuori la faccia da moglie e dirgli: «Marito mio, è tardi, torniamo a dimora».
[…]
Con lui avrei dovuto essere di pietra, non avrei mai dovuto aver sonno né rivolgergli la parola. A poco a poco finii per capire che era meglio lasciarlo andare da solo, dato che mi fidavo.
Come i bambini, pensavo “affidiamoci alla sorte”. C’è un dio per i bambini e per le mogli!
Ma Tonio si annoiava spesso nel corso delle sue serate da uomo libero, e mi chiedeva di telefonargli ovunque andasse.
«Chiamatemi, ve ne prego. Odio talmente tanto quelle chiacchiere, quelle conferenze, quelle cene. Ho già raccontato tutto… credetemi, moglie mia, preferisco perdere tempo che saliva. Poco importa che la padrona di dimora si arrabbi perché mi chiedete di rientrare subito. Sapete che sono ben educato: se non chiamate, non posso tornare!».
Avevo preso l’abitudine di andare al cinema quando usciva, e di passare poi a prenderlo dai suoi amici. Ah! Mi sentivo molto furba. Si stancava tanto a uscire. Era invitato contro la sua volontà. Si sentiva obbligato senza sapere perché…
Era feroce e solitario. Ma amava anche la compagnia. Il suono del telefono gli faceva paura: alcuni amici gli parlavano per ore intere. Poi voleva riprendere le conversazioni iniziate la sera prima e interrotte alle tre del mattino, ed era ancora al telefono alle due del pomeriggio. Mangiavamo col telefono sul tavolo. Davanti a lui, mi sentivo davvero priva di risorse e perdevo ogni senso pratico. Una bambina.
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di F. Q.
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2023-06-29 09:42:51 ,