Il giorno in cui i carabinieri del Ros l’arrestarono, il 16 gennaio scorso, disse al procuratore Maurizio de Lucia: «Con voi parlo, ma non collaborerò mai». Il boss Matteo Messina Denaro è rimasto sempre un irriducibile. Anche nei giorni più terribili del tumore che l’affliggeva, da agosto era ricoverato nell’ospedale dell’Aquila, fra imponenti misure di sicurezza. Da ieri sera alle 20.30, con la figlia Lorenza al capezzale, il silenzio del padrino è diventato irreversibile, come il suo coma. Gli è stata sospesa l’alimentazione, il boss ha chiesto di non subire accanimento terapeutico.
Così, la malattia ha sopraffatto l’ultimo padrino delle stragi che era riuscito a restare in latitanza per trent’anni, nonostante dovesse scontare ergastoli per le stragi Falcone, Borsellino, per le bombe di Firenze, Milano e Roma. Era stato condannato anche per il rapimento e l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del collaboratore che svelò i segreti della strage di Capaci. E poi per l’omicidio dell’agente della polizia penitenziaria Giuseppe Montalto. Matteo Messina Denaro non ha mai smesso di custodire davvero tanti segreti sulla lunga stagione di morte e complicità della Cosa nostra corleonese. Nonostante la malattia lo avesse costretto a cambiare i piani della sua latitanza dorata.
Ecco come la raccontava lui, sfidando i magistrati che erano andati a interrogarlo un mese dopo l’arresto: «Io, durante la latitanza, non ho mai avuto rapporti con appartenenti alle istituzioni, completamente». Per allontanare ancora una volta l’idea che abbia beneficiato di complicità scomodò pure un antico proverbio: «Quando scoprii questo tumore e quindi mi restava poco da… però volevo andarmi a curare, dissi: “Vediamo”. E mi sono messo a pensare, ho seguito un vecchio adagio, un proverbio ebraico che dice: “Se vuoi nascondere un albero, piantalo nella foresta”. E l’ho seguito per davvero. Anche perché dicevo: “Ora che ho la malattia, non posso stare più fuori e debbo ritornare”. Qua mi gestivo meglio, nel mio ambiente».
Così, dopo tanti viaggi, in Italia, e probabilmente anche in Europa, e forse pure più lontano, Messina Denaro aveva deciso di tornare nella sua Sicilia, nel 2020 appunto. Abbassando tutte le sue precauzioni. A Campobello di Mazara andava pure al ristorante o a giocare al videopoker. Proprio la malattia è stata il suo punto debole: all’inizio di dicembre dell’anno scorso, i carabinieri del Ros hanno trovato nella casa della sorella un pizzino che conteneva il diario clinico di un malato di tumore, fra interventi e ricoveri. Una veloce indagine al ministero della Salute ha stretto il cerchio su un anonimo geometra di Campobello, Andrea Bonafede, che la mattina del 16 gennaio doveva fare una seduta di chemioterapia nella clinica La Maddalena. Ma si è presentato Messina Denaro e così è finita la latitanza dell’ultimo boss delle stragi. Ora che il suo silenzio è diventato irreversibile, bisognerà continuare a cercare i suoi segreti. Per fermare la riorganizzazione della mafia siciliana.
Negli ultimi tempi, l’unico momento di cedimento l’ha avuto davanti alla figlia Lorenza, che non aveva mai visto. In lacrime, l’ha riconosciuta formalmente, dandole il suo cognome. Ma è rimasto un irriducibile il padrino che era il pupillo del capo dei capi, Totò Riina. E non ha mai smesso di lanciare le sue sfide: «Certo che ho dei beni, ma mica vengo a dirlo a voi», ha detto ai magistrati di Palermo qualche mese fa. E ancora: «Io non faccio parte di niente, io sono me stesso — ha messo a verbale — . Mi definisco un criminale onesto». Nel suo primo interrogatorio, un mese dopo l’arresto, Messina Denaro parlò da capomafia ancora in carica. «Io non sono uomo d’onore — un’altra sfida — mi ci sento». Negò, per poi rilanciare. «Io non sono un santo — è stata l’unica ammissione — però non c’entro niente con la storia del bambino Di Matteo», tenne a precisare.
Messina Denaro e i suoi segreti. In questi mesi, i pm di Palermo gli hanno chiesto del suo computer e dell’archivio. «Se lo avessi non lo direi, non è nella mia mentalità», ha risposto senza tentennamenti. Un’altra sfida. Il pentito Antonino Giuffrè ha raccontato che fu consegnato proprio a Messina Denaro l’archivio di Riina. Ma non c’era nell’abitazione di Campobello dove abitava l’ultimo latitante di Cosa nostra. Fra i mille biglietti sequestrati non c’erano neanche i pizzini sugli affari. Nel covo, sono state trovate invece tante chiavi, e da queste è ricominciata l’indagine su Messina Denaro e i suoi segreti. Quelle chiavi aprono forse altri covi, o cassette di sicurezza. Chissà.
[email protected] (Redazione Repubblica.it) , 2023-09-22 22:13:00 ,palermo.repubblica.it