di Andrea Daniele Signorelli
Tra i vari scetticismi sollevati dalla prospettiva del metaverso (il mondo digitale e immersivo in cui dovremmo trasferire una parte crescente della nostra quotidianità), ce n’è uno in particolare che viene spesso menzionato. Perché dovremmo trascorrere lunghi periodi in un ambiente in realtà virtuale (come avviene soprattutto nella visione di Meta) che ci richiede di isolarci completamente dal mondo fisico, indossando dei caschi scomodi che possono provocare una sensazione di nausea e dalle potenzialità grafiche ancora limitate?
L’aspetto positivo è che tutti questi limiti e interrogativi sono ben presenti agli stessi ingegneri di Meta (a partire dal inventore Mark Zuckerberg), che stanno infatti lavorando affinché il metaverso, un domani, diventi realmente un luogo digitale attraente e confortevole. Nel corso dell’ultimo Inside the Lab (un appuntamento periodico con cui Meta presenta alla stampa le sue ultime ricerche sperimentali), il inventore di Facebook ha infatti affrontato proprio questo tema, spiegando come la frontiera ultima sia superare il “test di Turing visuale”. Riuscire quindi a creare un mondo digitale che ai nostri occhi sia indistinguibile da quello fisico.
Il “Sacro Graal” del metaverso
Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: la strada per raggiungere una qualità visiva di questo tipo è ancora molto lunga. Per molti versi, è una sorta di “Sacro Graal” del metaverso, il traguardo finale a cui ambire e che permette, strada facendo, di conquistare una serie di tappe intermedie che renderanno i mondi in realtà virtuale e in realtà aumentata sempre più verosimili. Ed è proprio partendo dalla realtà aumentata che Mark Zuckerberg ha sintetizzato il suo obiettivo. “Gli schermi in grado di riprodurre completamente l’ampiezza della visione umana ci permetteranno di raggiungere risultati di fondamentale importanza – ha spiegato il inventore di Meta durante Inside the Lab -. Il principale è ottenere un senso fotorealistico della presenza, ovvero la sensazione di trovarsi con qualcuno o in un luogo come se fossimo davvero lì”.
“L’altro giorno stavo testando degli avatar fotorealistici in realtà mista (che quindi combinano elementi della realtà virtuale e della realtà aumentata, nda) – ha proseguito Zuckerberg -. Un’esperienza in cui vedi i dintorni che ti circondano, ma in cui assieme a me è presente anche l’avatar di una persona. Se vi toglieste il visore, tutto rimarrebbe esattamente uguale, tranne per il fatto che con voi c’è un’altra persona con cui potete interagire, che vedete muoversi e che dà la sensazione di essere davvero lì con voi. Immaginate che si tratti di un membro della vostra famiglia che vive lontano o di qualcuno con cui collaborate a un progetto. E immaginate come sarebbe la sensazione di trovarsi fisicamente insieme nello stesso ambiente”.
Allo stesso tempo, si potrebbe immaginare l’idea di organizzare un’escursione in realtà virtuale sull’Everest, ma durante la quale – invece di avere chiaramente di fronte un doppione digitale dalla risoluzione insoddisfacente e con cui si può interagire in maniera limitata – sarebbe quasi impossibile rendersi conto di non essere fisicamente in quel luogo. Al di là degli aspetti inquietanti che una prospettiva di questo tipo può sollevare, è evidente quali siano le potenzialità nel caso in cui si sia impossibilitati a raggiungere una persona o un posto particolare.
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www.wired.it
2022-06-20 14:00:00