A colloquio con l’esponente Pd (mentre lo chiama Conte). «Non c’è dubbio che il mio sistema di relazioni sia formidabile. Ma il potere nella sua forma più pura e volgare non fa per me»
Una lama di gelo dalla finestra socchiusa, quattromila libri («Ne ho altrettanti in Thailandia») ancora dentro i contenitori di plastica addossati alla parete di un salone grande e scarno: Goffredo Bettini ha lasciato il leggendario monolocale nel quale nascevano e morivano i governi di Giuseppe Conte e, una settimana fa, ha traslocato in questo appartamento borghese del quartiere Salario, i mattoncini al soffitto e un tavolo rettangolare di legno dove, con la scusa di ragionare sul Quirinale e dintorni, intanto beviamo tè verde e mangiamo una giudiziosa dose di profiterole by Regoli, il più buono di Roma.
Squilla il suo cellulare: è il ministro Andrea Orlando. La voce di Bettini diventa un soffio, china la testa su un’agenda fitta di appunti.
Ecco in azione un uomo potente. «Non ci si metta anche lei: è una menzogna che circola da tempo. E di cui si è fatto portavoce, in modo subdolo, Carlo Calenda. Nel silenzio, per me doloroso, delle figure apicali del Pd. Intendiamoci: non c’è dubbio che il mio sistema di relazioni sia formidabile, ed è altrettanto vero che io provi una certa soddisfazione nell’indirizzare gli eventi. Ma il potere nella sua forma più pura e volgare non fa per me». E però, appena insediato, il sindaco di Roma Roberto Gualtieri ha tenuto a precisare: qui decido io, non Goffredo. «Mai fatto pressioni su Gualtieri. Lui stesso ha smentito. Erano loro che mi chiedevano pareri. Comunque, appena sfiorato dall’insinuazione, ho lasciato il consiglio di amministrazione della Festa del cinema, da me creata» (mette su uno sguardo di sincera amarezza).
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Il cellulare di Bettini è un piccolo Nokia da collezione: ma prende benissimo. E squilla di nuovo: Giuseppe Conte. Avrebbe potuto chiamare Gianni Letta, e però, vabbé: un cronista deve sapersi accontentare.
Intanto, mentre parlano, lo sguardo scorre sui contenitori: antiche biografie di Togliatti e Gramsci, una ricercata Critica della ragion pura di Immanuel Kant, Guerra e pace.
Bettini ha 69 anni, è figlio dell’avvocato Vittorio, nobile e gran proprietario terriero marchigiano, e di Wilde, che in prime nozze aveva sposato diciassettenne il principe musulmano Xhemal Rexa, albanese e nipote del pascià. «Papà, quando ero bambino, mi faceva leggere Dostoevskij. Avrei preferito ascoltare qualche favola, invece sentivo parlare solo di politica»: colto, snob, scapolo, un braccio rotto da quelli di Autonomia nel 1978. Comincia nel Pci — è segretario romano della Fgci («Con Veltroni, fin da allora, ci siamo sempre divertiti molto insieme») — poi Pds, Ds e Pd: deputato, senatore, europarlamentare. Con un talento riconosciuto da tutti, e invidiato da molti: l’intuito politico.
È vero che con Conte state cercando un’intesa per portare al Quirinale Letizia Moratti? «Solenne sciocchezza. Conte voleva solo commentare la relazione di Enrico Letta, nella direzione del partito: che io, tra l’altro, ho trovato molto bella. Le cose certe sono altre». La candidatura di Berlusconi. «Appunto. Il personaggio, dato oggettivo, è profondamente divisivo. E a lungo lo è stato anche in Europa. Quindi è l’esatto contrario di ciò che ci si aspetta da un presidente della Repubblica. Purtroppo, Meloni e Salvini non hanno il coraggio di dirglielo esplicitamente. Si sono limitati a chiedergli i numeri di cui dispone, ma — in questo modo — si sono incartati». Continui. «Berlusconi non dirà mai: 505 voti non ce l’ho. Continuerà invece a cercarne. Bloccando così il centrodestra fino alla terza votazione». Ha l’aria preoccupata. «Su Berlusconi non faccio spallucce. Dobbiamo vigilare. Perché la rappresentanza parlamentare è incerta, a decine, in tutti i partiti, sanno che non verranno rieletti, c’è un ingovernabile e gigantesco gruppo Misto. Il rischio che racimoli un po’ di voti, insomma, c’è. La pratica Berlusconi va espletata con cura».
Bettini accarezza la tazza del tè. «Poi, a mio avviso, ci sono due strade possibili. La prima: la politica prende atto che l’emergenza non è affatto finita né sul piano sanitario, né sulla messa a punto del Pnrr. Quindi ha uno scatto, va da Draghi e gli propone un patto di un anno: sarai più solido, non facciamo più i capricci dell’ultimo mese e, in Parlamento, variamo una nuova legge elettorale di stampo proporzionale…». E al Quirinale? «Occorre individuare una figura di alto profilo capace di guidare la transizione del Paese dall’uscita dell’emergenza alla ricostruzione di un sistema politico più equilibrato». Affascinante, ma complicato. «A questa operazione dovrebbe collaborare soprattutto Salvini. Ha un interesse preciso. Nei consensi lui scende, la Meloni sale, Berlusconi s’è ripreso la scena: ha l’occasione di diventare il vero kingmaker».
Nomi per il Colle: Casellati? «Beh, vedo altre donne di grande qualità». Tipo? «Guardi, questo giochino non…». Amato? «Perché no? Autorevole, di grosso prestigio internazionale». Amato però potrebbe avere l’ostilità dei 5 Stelle. «Rischio concreto, da verificare». Con Conte che non controlla il Movimento. «È in un momento di notevole difficoltà. Uomo leale, che apprezzo: ma più leader di governo, che capo di un partito». Girano altri profili. Casini? «Sarebbe all’altezza, come altri». Come Gianni Letta? «È un servitore prima delle istituzioni, poi della sua parte politica. Ma candidarsi non è nel suo orizzonte». Franceschini? «Così mi mette in imbarazzo. Dario è una delle persone che stimo di più». Stavolta pochi nomi della società civile. «Vero. Anche se ci sarebbe Andrea Riccardi, enorme spessore umano, riconosciuto pure all’estero».
Questa, la prima strada. Dovesse fallire? «La seconda è obbligata. O chiediamo a Mattarella di accettare un altro mandato. Oppure verifichiamo la disponibilità che Draghi ha lasciato intuire».
Ancora il cellulare, ancora Conte.
16 gennaio 2022 (modifica il 16 gennaio 2022 | 22:21)
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Fabrizio Roncone , 2022-01-16 21:33:31
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