Il presidente del M5S spiega su La7 la sua rinuncia alla candidatura per le suppletive: «Ragione politica, sto realizzando un progetto di rilancio del Movimento»
Giuseppe Conte vuole entrare in Parlamento «dalla porta principale» delle elezioni politiche, possibilmente nel 2023. Vuole entrarci sull’onda di una consacrazione popolare e non dalla porticina delle suppletive di Roma. Così il presidente del M5S motiva il gran rifiuto a Enrico Letta, che gli aveva offerto il seggio uninominale della Camera lasciato libero da Roberto Gualtieri. Un no che ha spiazzato il Pd e riacceso lo scontro tra l’ex premier e gli arcinemici centristi, Matteo Renzi e Carlo Calenda.
«Voglio entrare in Parlamento con un programma di governo nato dal basso e frutto del dialogo con i territori, dopo una campagna elettorale ampia e diffusa», spiega al Corriere Conte, convinto che la strategia del prender tempo «darà più forza anche al Movimento rispetto alla disponibilità ad accomodarsi su un seggio frutto di una elezione suppletiva, condotta nella distrazione generale che accompagna le festività natalizie». Il leader dei 5 Stelle non ha fretta. Il progetto che ha in testa è di lunga scadenza, non punta a votare nel 2022 e non ha urgenza di saldare quell’alleanza strutturale a cui lavora Enrico Letta. Ospite di Myrta Merlino a L’aria che tira su La7, Conte ha seminato qualche buccia di banana sulla strada di un centrosinistra unito, in vista del Quirinale e poi delle Politiche: «Pensare a un campo largo sì, ma più si estende e raccoglie indirizzi politici che esprimono personalismi e più la proposta di governo non è più credibile». Formula che restringe il perimetro a una coalizione senza Renzi e Calenda, formata solo da M5S, Pd e Leu. Non proprio quel che spera Letta, determinato a «spazzar via i veti incrociati, a uscire dalla logica dello scontro tra leader e costruire insieme una visione dell’Italia».
Al Nazareno la scelta di Conte di fare un passo indietro prima di compierne uno avanti ha creato parecchio malumore. «Era un sì, poi è diventato un no» è il lamento che risuona ai piani alti del Pd, dove di certo ricordano quella cena a dimora di Goffredo Bettini, due mesi fa, quando a tavola c’erano Conte e Zingaretti e nel menù spuntò il tema di chi sarebbe stato il candidato per Roma. L’ex premier sembrava pronto. Ma dopo il sì trapelato domenica e confermato dal Nazareno, ecco il dietrofront. Se per i dem è stato innescato «dalla paura di Calenda», per i contiani le ragioni sono altre: «Nel M5S l’idea non piaceva a tanti». E se pure l’avvocato era stato tentato, si è poi convinto che non avesse senso «andare in Parlamento a fare il pagliaccio» invece di girare in lungo e in largo l’Italia per radicare e costruire il partito.
E adesso, che ne sarà dell’alleanza? Al Nazareno la ritengono «inevitabile», nonostante la leadership di Conte sia ancora «molto debole» e ci vorrà tempo e pazienza perché si rafforzi. Anche nell’entourage di Conte, per quanto tesi possano essere i rapporti, se ne parla come di una questione matematica: «Se il Pd alle Politiche supera il 20% e il M5S non fa il 15% dei sondaggi di oggi ma vola al 25%, battere le destre non è un miraggio». Sarà. Ma intanto, rinunciando a guidare i deputati nella partita del Quirinale, Conte lascia campo libero all’attivismo di Di Maio. «Luigi gioca per sé, userà e i suoi 30, 35 parlamentari per spostare verso destra l’asse del M5S», azzarda un contiano. E racconta sottovoce che il ministro degli Esteri «ha fatto un patto con Giorgetti per Draghi al Colle, Franco a Chigi, Giorgetti al Mef, Laura Castelli al Mise e lui alla Farnesina». Voci, sospetti e veleni che abbondano tra i parlamentari, dove anche una frase di Conte ha suscitato mugugni: «Berlusconi ha fatto anche cose buone». Quel che i nostalgici dicono di Mussolini.
7 dicembre 2021 (modifica il 7 dicembre 2021 | 21:22)
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Monica Guerzoni , 2021-12-07 19:59:50
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