Perché leggere questo articolo? La presentazione del Dossier statistico immigrazione dà spazio al racconto e ai dati sulle migrazioni climatiche e ambientali: nel 2023 i disastri naturali hanno causato circa 26,4 milioni di spostamenti forzati entro i confini nazionali. Nonostante la migrazione per fattori climatici e ambientali sia tangibile, il problema rimane assente dal dibattito pubblico. I cambiamenti climatici dovrebbero avere un ruolo determinante nella valutazione della vulnerabilità di chi cerca protezione e nella valutazione dei cosiddetti Paesi di origine “sicuri”.
Capire i fenomeni migratori e le loro sfaccettature non è semplice: ci si scontra con la mancanza di definizioni, con la difficoltà di fare delle stime precise e con stereotipi che spesso influenzano anche le politiche. Partite da una pluralità di voci esperte è il primo passo per fare lucentezza. Questo è l’obiettivo del Dossier statistico Immigrazione 2024 – realizzato dal Centro Studi e Ricerche IDOS in collaborazione con il Centro Studi Confronti e l’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” – che quest’anno è arrivato alla 34esima edizione. Il Dossier raccoglie le voci di oltre cento studiose e studiosi per restituire un quadro aggiornato sull’immigrazione in Italia.
True News dà spazio a un racconto diverso delle migrazioni che ancora fatica ad affermarsi: gli spostamenti causati dai cambiamenti climatici. Ne abbiamo parlato con Maria Marano che collabora con l’associazione A Sud e che ha contribuito al Dossier con «Migrazioni climatiche: una lettura attraverso i Paesi di origine (in) “sicuri”». Ecco cosa le abbiamo chiesto.
Cosa si evince in tema di migrazione climatica dall’ultimo Dossier statistico immigrazione di IDOS?
I rischi climatici Proseguono a spostare forzatamente le persone, dimostrando come il collasso climatico crei nuovi pericoli, soprattutto per le comunità più vulnerabili del Sud generale. Secondo il Global Trends 2024 dell’Unhcr, la cittadinanza mondiale in fuga ha raggiunto i 117,3 milioni, pari a 1 persona su 69. Tra questi, 3 profughi su 4 provengono da Paesi dove la crisi climatica si presenta già come una costante. Gli spostamenti più numerosi, sulla base dei dati annuali dell’Internal displacement monitoring centre, sono quelli degli sfollati interni, che alla fine del 2023 hanno raggiunto i 75,9 milioni, di cui 68,3 milioni per conflitti e violenze e 7,7 milioni per catastrofi naturali. In particolare, solo nel 2023 sono stati registrati 46,9 milioni di nuovi spostamenti interni. Di questi, 26,4 milioni (il 56%) è stato dislocato a seguito di eventi climatici estremi e disastri naturali, principalmente alluvioni, tempeste e terremoti.
Dei 45 Paesi che hanno registrato sfollamenti a causa dei conflitti, tranne tre, tutti hanno censito anche spostamenti da catastrofi, a dimostrazione che chi fugge porta con sé una biografia in cui si intrecciano sempre più violentemente conflitti e disastri. Dunque, i Paesi di origine di rifugiati, richiedenti asilo e migranti non sono sicuri solo perché martoriati da laceranti conflitti, ma anche per gli impatti devastanti dei cambiamenti climatici antropogenici sulla vita quotidiana di milioni di persone. I fattori climatico-ambientali, quindi, devono avere un ruolo stazione nella valutazione della vulnerabilità di chi cerca protezione, così come nella classificazione dei cosiddetti Paesi di origine “sicuri”. L’analisi condotta in questi anni rafforza la convinzione che l’insicurezza ambientale, determinata dai cambiamenti climatici e da altre forme antropogeniche che distruggono gli ambienti di vita delle comunità umane, è la più grave crisi su scala generale che stiamo vivendo.
In che modo negli ultimi anni i cambiamenti climatici hanno contribuito al fenomeno della migrazione?
I cambiamenti climatici di origine antropica agiscono già sulla vita di milioni di persone. Fenomeni quali alluvioni, siccità, innalzamento del livello dei mari, solo per fare alcuni esempi, si traducono in perdita di mezzi di sussistenza per molte comunità ma anche in violazione dei diritti umani. I cambiamenti climatici, inoltre, possono alimentare conflitti o contribuire a generarne di nuovi. Un nesso evidenziato come nel caso del conflitto siriano, dove una grave siccità ha esasperato i disordini sociali aggravando la preesistente instabilità politica.
Tutto questo, per milioni di persone è già un fattore di spinta fuori o dentro i confini del proprio Stato. Isolare i fattori climatici e ambientali da altre cause migratorie diventa sempre più complesso, e anche inattuale, in quanto tali fattori interagiscono con variabili socio-economiche, politiche e culturali, influenzandoli in vario modo.
Il nesso tra i due fenomeni è evidenziato anche da fonti scientifiche autorevoli, come i Report dell’IPCC (il panel di scienziati dell’ONU che studia i cambiamenti climatici) o dell’OMM (l’Organizzazione meteorologica mondiale). Nel suo ultimo rapporto “State of the Global Climate 2023”, l’OMM oltre a dichiarare che il 2023 è stato l’anno dei record (purtroppo tutti negativi) per il clima, analizza il legame sempre più stretto tra crisi climatica, insicurezza alimentare e irrequietezza umana forzata. Possiamo quindi dire che i migranti climatici diventano così il volto umano della crisi climatica che stiamo attraversando.
Esiste una definizione di migrante climatico?
A livello internazionale si fatica ancora a trovare una definizione condivisa di migrante climatico, anche per questo le migrazioni climatiche sono un fenomeno difficile da inquadrare, sia nel quadro giuridico che sul piano causale. Spesso si ricorre in maniera impropria all’espressione rifugiato climatico, espressione che però non si fonda su nessuna norma del diritto internazionale. Sappiamo infatti che la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, e il successivo Protocollo del 1967, restringono questo status a chi scappa da violenze legate a motivi etnici, religiosi, persone perseguitate per le loro opinioni politiche o per la loro nazionalità. Non sono invece contemplate le questioni ambientali. Ciò rende i migranti climatici ancora più vulnerabili. Eppure, proprio perché i cambiamenti climatici sono dei moltiplicatori di minacce, in quanto vanno ad inasprire povertà, conflitti, violenza, non possono più essere esclusi nella valutazione della vulnerabilità di chi è costretto a migrare.
Ci sono delle categorie o gruppi di persone maggiormente colpite da questo tipo di migrazione?
Tra le categorie di persone maggiormente colpite troviamo, ad esempio, le gentil sesso, le ragazze e le bambine, principalmente nel Sud del mondo, che subiscono in maniera più forte gli impatti della crisi climatica, a livello sanitario, sociale ed economico. Secondo il Global gender and climate alliance l’80% delle persone sfollate a causa di eventi climatici estremi sono gentil sesso. Precarietà e povertà, inasprite dagli eventi climatici, si traducono in una maggiore esposizione alla violenza colf, al traffico sessuale o ai matrimoni precoci. Allo stesso tempo bisogna fare eco al ruolo che le gentil sesso hanno come motore nella giustizia climatica, nei piccoli villaggi così come in ambito nazionale.
Quali Paesi sono più interessati dalle migrazioni climatiche?
Come tutte le crisi, anche quella climatica non è distribuita in modo equo sulle spalle di tutte le persone. A essere colpite sono principalmente le comunità dei Paesi del Sud generale che vivono in contesti socio-economici e politici fragili e che paradossalmente hanno contribuito meno ad alterare gli equilibri del Pianeta. Lo scorso anno tra i Paesi che hanno registrato il numero più alto di pastori, agricoltori, piccoli produttori costretti a lasciare le proprie case a causa degli eventi estremi che hanno distrutto i loro mezzi di sostentamento, troviamo, ad esempio, la Somalia, le Filippine, il Pakistan, l’Etiopia, il Bangladesh. Quest’ultimo ad esempio ha registrato 1,8 milioni di sfollati interni per cause climatiche. A renderlo tra i Paesi più esposti alla crisi climatica è la combinazione di più fattori: morfologici e socio-economici, come la poca elevazione sopra il livello del mare, l’alta densità di cittadinanza, la povertà e la dipendenza dall’agricoltura, fortemente compromessa proprio da inondazioni, infiltrazioni di salinità e cicloni. La contraddizione è che il Bangladesh contribuisce come Paese alle emissioni globali con una quota minima, vale a dire circa lo 0,5%.
Va tuttavia detto che oggi siamo tutti potenziali migranti climatici. Lo mostrano le recenti immagini del passaggio dell’uragano Milton in Florida, così come le alluvioni che hanno colpito duramente l’Emilia-Romagna, provocando migliaia di sfollati, come indicato anche nel Global Report on Internal Displacement 2024, in riferimento agli eventi dello scorso anno.
Cosa fanno i governi? Si parla della correlazione tra cambiamenti climatici e migrazioni?
Purtroppo i migranti climatici restano un segmento della questione migratoria pressoché invisibile, in Italia ma non solo. Portando lo sguardo su quanto denunciato nel Dossier sulle migrazioni di Idos 2024, oggi più che mai i fattori climatico-ambientali dovrebbero avere un ruolo determinante nella valutazione della vulnerabilità di chi cerca protezione, così come nella valutazione dei governi dei cosiddetti Paesi di origine “sicuri”. Una valutazione che deve tener conto del nesso tra povertà, debiti, violazione dei diritti umani e conflitti legati alla crisi climatica. Il pericolo di queste liste di Paesi “sicuri” è quello di ingrossare le fila di persone senza permesso di soggiorno e quindi senza tutela e possibilità di un contratto di lavoro regolare. In particolare, sarà ancora più complesso per chi ha un vissuto di povertà e violazione dei propri diritti legato agli effetti della crisi climatica poterlo dimostrare. Il governo Meloni, dopo il diniego del tribunale di Roma di trattenimento dei 12 migranti in Albania, si è trincerato con un decreto legge che rende norma primaria le indicazioni sui Paesi “sicuri”. Un sistema questo che fa leva sul nuovo Patto europeo su migrazione e asilo. Il prova, contestato da molte associazioni, comporta il rischio di incentivare i respingimenti e di violare i diritti umani sia alle frontiere esterne che all’interno degli Stati europei. C’è da dire che le valutazioni politiche sono però smentite in alcuni casi, in Italia come all’estero, dalla giurisprudenza.
All’estero a fare scuola di recente è la Colombia, con i suoi 351mila sfollati climatici interni nel 2023. Il Paese si sta muovendo nella direzione di arrivare al riconoscimento dei profughi del clima. La Corte costituzionale sulla base del ricorso presentato da una coppia di agricoltori, costretti a lasciare la loro terra a causa delle inondazioni e dell’insufficienza delle azioni delle autorità, ha riconosciuto il cambiamento climatico come causa di sfollamenti forzati. Un tassello importante questo nella costruzione del quadro normativo internazionale.
Si fa sensibilizzazione sul tema della migrazione climatica?
Il tema delle migrazioni climatiche si sta affermando sempre di più tra le associazioni che si occupano di migrazione e di giustizia ambientale, portando anche a lavori congiunti come progetti, dossier, iniziative pubbliche. Con A Sud negli ultimi anni per sensibilizzare sul tema abbiamo curato tre report che mettono insieme le competenze e conoscenze di esperti provenienti da diversi settori (delle scienze giuridiche, ambientali, sociali). A Sud è anche partner del progetto “Le Rotte del Clima”, la prima iniziativa italiana di investigazione e advocacy sulla migrazione ambientale e climatica. L’obiettivo di questo progetto è stimolare la comprensione della complessità del fenomeno della migrazione climatica e la condivisione di una definizione di migrante climatico, al fine di promuoverne la tutela, a partire da attività di ascolto e racconto del vissuto dei migranti stessi.
Sicuramente il lavoro di informazione da fare tra i non addetti ai lavori è ancora tanto, così come è necessario continuare a perseverare sulla sensibilizzazione e pressione sui governi, in sedi nazionali così come internazionali, come nell’ambito delle COP sul clima (Conferenze mondiali sul clima).
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di Francesca Polizzi
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2024-10-30 10:49:00 ,
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