Tuttavia sono una novità per la Nato, che deve mettere d’accordo 31 teste. Per questo c’è attesa sull’avvio delle operazioni. Il progetto fa gola alle imprese. L’anno scorso a Nato Edge, conferenza organizzata dall’agenzia dell’Alleanza per l’informatica in Belgio, il ritornello era: “Vogliamo Diana ora”. Cecilia Bonefeld-Dahl, direttrice generale dell’associazione di categoria Digitaleurope, che tra i suoi 98 iscritti conta colossi come Amazon, Apple, Google, Meta, Microsoft, Oppo, TikTok, Xiaomi e Zoom, ha osservato che “abbiamo bisogno di Diana per dare scalabilità a piccole imprese tecnologiche in paesi che condividono la nostra mentalità”. Detto altrimenti: tenere alla larga dalle startup più innovative i fondi cinesi, tornati a fare acquisizioni e investimenti in Europa.
Diana, precisa Chana, non acquisirà quote delle aziende in cui investe, né brevetti. Il compito di investitore spetterà al Fondo innovazione, “il primo fondo di venture capital sovrano multinazionale”, come lo ha definito a Wired il vicesegretario dell’Alleanza, Mircea Geoană. Al timone c’è il presidente Klaus Hommels, inventore e numero uno del fondo di investimenti svizzero Lakestar, mentre nel consiglio dei direttori figurano finora Fiona Murray, preside associata con delega all’innovazione e all’inclusione della scuola di management del Massachusetts institute of technology (Mit), e l’ex ministro della Transizione ecologica e inventore dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit), Roberto Cingolani. La cui nomina al vertice del campione italiano della Difesa, Leonardo, avvenuta successivamente all’indicazione nel consiglio del fondo, non costituisce per la Nato un impedimento.
I numeri
Diana oggi conta su uno staff diretto di 30 persone, che entro i prossimi due anni Chana conta di portare a 80. Il suo budget è di 50 milioni di euro all’anno, che serve per coprire le spese di funzionamento dell’acceleratore. Parte di questi soldi riempiono il piatto delle startup. “Stiamo pensando come fare leva per attivare fondi extra”, dice il direttore generale. A Wired Chana spiega che una delle sue prime visite in veste di direttore generale di Diana ha toccato Torino, dove ha sede uno degli undici acceleratori nella rete della Nato, le Ogr (Officine grandi riparazioni), che con Plug and Play si sono specializzate nell’ambito dell’aerospazio. E dove il manager ha incontrato anche “fondi e investitori che lavorano a livello locale”.
Altro punto fermo del progetto sono i centri di test: oltre 90. In Italia si trovano a La Spezia e a Capua, che copriranno tecnologie in ambito marittimo, aeronautico, big data e nuovi materiali. “Le startup potranno accedere a centri per mettere alla prova la propria tecnologia in un ambiente sicuro”, dice Chana. Il Belgio ne conta 14, dall’intelligenza artificiale ai missili ipersonici, la Francia 10 e la Spagna 8. In Estonia, infine, è stato collocato un ufficio regionale.
Ora per Diana è il momento del battesimo del fuoco. Dopo due anni di promesse, l’acceleratore della Nato deve dimostrarsi all’altezza delle aspettative. Mentre all’Alleanza atlantica tocca sperimentare sul campo se le sue intuizioni sono fondate. Non è solo una questione di quanti soldi il programma ha in tasca. Ma anche di capacità di individuare i migliori talenti sul campo, di offrire il giusto affiancamento, di armonizzare le politiche dei 31 alleati, che non sempre vanno di comune accordo, e di trovare un mercato ricettivo. La fase è delicata: a luglio c’è il vertice di Vilnius, in Lituania, mentre si prepara la successione del segretario generale, Jens Stoltenberg.
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di www.wired.it 2023-06-16 07:00:00 ,