Natura è cultura e la lista del patrimonio culturale immateriale Unesco deve tenerne conto

Natura è cultura e la lista del patrimonio culturale immateriale Unesco deve tenerne conto


Ogni anno, in primavera e in autunno, migliaia di animali si spostano lenti lungo percorsi sempre uguali, sotto la guida di gruppi di pastori, insieme ai loro cani e cavalli. Come in un ciclo ininterrotto, rituali condivisi e pratiche sociali vengono condotti ritmicamente dalla pianura alla montagna e viceversa, prima avanti e poi indietro, modellando le relazioni tra persone, animali ed ecosistemi. I pastori transumanti conoscono l’ambiente e i suoi equilibri, poiché il loro metodo di allevamento è sostenibile ed efficiente: con le loro competenze badano al bestiame e contribuiscono alla corretta gestione dei territori e a mantenere alta la biodiversità.

Nel 2003, la conferenza generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura – più nota come UNESCO – ha adottato la Convenzione per la Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, ratificata dall’Italia nel 2007. Trentun anni dopo l’istituzione della celebre lista dei siti di eccezionale importanza culturale o naturale, UNESCO ha infatti deciso di riconoscere, proteggere e promuovere i beni intangibili, come le espressioni orali, le arti dello spettacolo, le pratiche sociali, i riti e le feste, l’artigianato tradizionale. Ma anche le conoscenze e pratiche sulla natura e l’universo come la transumanza.

A seguito della 17a sessione del Comitato intergovernativo per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, svoltasi a Rabat tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre scorsi, gli elementi del Patrimonio Culturale Immateriale sono saliti a 677 e coinvolgono ben 140 Paesi del mondo. In Marocco l’UNESCO ha infatti deciso di inserire nella lista ben 48 nuovi beni intangibili dell’umanità – 5 dei quali bisognosi di salvaguardia urgente – tra cui l’arte di cucinare la baguette francese, un canto popolare algerino, la tradizione dell’apicoltura slovena, una danza rituale giapponese detta Furyu-odori e anche l’harissa, tipica salsa tunisina a base di peperoncino rosso fresco, aglio e olio d’oliva.

Con il riconoscimento della tradizione dell’allevamento dei cavalli lipizzani, gli elementi italiani iscritti nella Lista del Patrimonio Culturale Immateriale sono saliti a 16 e ad essi si aggiunge il Tocatì, un programma condiviso per la salvaguardia dei giochi e degli sport tradizionali, che è stato iscritto nel registro delle Buone Pratiche di Salvaguardia UNESCO. Certo non è un record come quello che il nostro Paese detiene per il maggior numero di siti inclusi nella lista del patrimonio mondiale dell’umanità (ben 58 quelli ufficialmente riconosciuti, appena due in più della Cina, di cui 53 per motivi culturali e 5 come monumenti naturali), ma si tratta di un importante traguardo, tenendo conto che le Nazioni Unite dichiarano che i beni immateriali rappresentano la diversità e la creatività umana di fronte alla globalizzazione e la loro comprensione aiuta il dialogo interculturale e incoraggia il rispetto reciproco dei diversi modi di vivere.

In un Paese in cui esiste una storica dicotomia tra umanesimo e scienza, che ha origini profonde e mai del tutto superate dal sistema scolastico e che affonda le radici nel pensiero di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, fa tuttavia riflettere che ben 10 elementi del patrimonio immateriale nazionale afferiscano al dominio delle “conoscenze della natura”, spesso in “coabitazione” con altri dominii. Si tratta di pratiche talvolta plurimillenarie, le cui origini risalgono a tempi in cui conoscere la natura era il discrimine tra sopravvivere o soccombere ad essa e che l’UNESCO individua come una delle 5 manifestazioni – o “dominii” – dell’intangible cultural heritage, alla pari delle espressioni orali, delle arti dello spettacolo, degli eventi rituali e dell’artigianato tradizionale.

Si pensi alla falconeria, l’arte di cacciare con il solo ausilio degli uccelli rapaci, senza armi, spesso erroneamente associata a rievocazioni importanti, spettacoli circensi o collezionismo di animali. Nata nelle steppe asiatiche oltre 4000 anni fa e poi nei secoli migrata verso ovest con Persiani ed Arabi, giunge in Europa nel Medioevo soprattutto per impulso di Federico II di Svevia, Stupor mundi, profondo estimatore della cultura araba. Alle tribù mongole, che con aquile delle steppe, aquile reali, falchi sacri e girfalchi convivevano da millenni, non poteva passare inosservata la straordinaria abilità degli uccelli rapaci nel catturare lepri, volpi, ungulati e fagiani, non eguagliabile dai cacciatori nomadi a cavallo, armati di soli arco e frecce. Ecco che allora la conoscenza del comportamento dei rapaci, dei periodi riproduttivi per capire come e quando prelevarli dai nidi, delle tecniche per ammansirli e liberarli dopo la stagione di caccia, divennero il bagaglio culturale di interi popoli estesi in tutta l’Eurasia: un bagaglio genuinamente naturalistico che garantiva ai falconieri e ai loro congiunti abbondanza di proteine nella dieta.

In tempi ben più recenti – a partire dal 16° secolo – la capacità di identificare il “legno di risonanza”, quello con fibra dritta, senza torsioni e anelli di crescita regolari, in alberi di abete rosso ancora in piedi era ed è tuttora una competenza essenziale del Sapere fare liutaio di Cremona, altro elemento del patrimonio immateriale UNESCO. È noto come Antonio Stradivari si recasse personalmente in Trentino, nelle foreste della Val di Fiemme, per osservare, scegliere ed acquistare gli abeti che la sua cultura naturalistica suggeriva possedessero caratteristiche uniche per la cassa armonica dei suoi violini. Una cultura non limitata alla semplice percezione visiva del legno, ma estesa alla scienza forestale nel senso più vasto del termine, incluso lo studio dei periodi migliori in cui tagliare gli alberi, che la tradizione poi ha individuato attorno al solstizio d’inverno, o la durata della stagionatura del legno, non inferiore ai 5 anni. Al resto ci pensava la maestrìa in bottega, ad oggi ineguagliata al mondo.

Alcuni dei beni UNESCO afferenti alle cognizioni e prassi della natura includono pratiche di gestione ed utilizzo del paesaggio millenarie non solo ancora attuali, ma riconosciute dalle maggiori istituzioni ed agenzie internazionali per la salvaguardia dell’ambiente – FAO, UNEP, IUCN – come fondamentali in chiave di adattamento agli effetti del riscaldamento globale, quali dissesto idrogeologico e incendi. È il caso della già citata Transumanza, la forma di pastorizia itinerante attraverso cui il bestiame viene condotto stagionalmente verso i pascoli migliori a seconda della quota. Una pratica millenaria che svolge un ruolo essenziale nella prevenzione del rischio d’incendio, poiché le mandrie e le greggi riducono la biomassa infiammabile al margine delle foreste, dove è più facile l’innesco del fuoco.

Si tratta del Patrimonio Culturale Immateriale più antico, secondo alcuni studiosi risalente già al primo Neolitico e perpetuatosi lungo rotte di migrazione rimaste immutate per millenni. I pastori transumanti possiedono infatti una vera e propria cultura naturalistica per garantire il migliore foraggio al bestiame, che parte della botanica e include pedologia, climatologia e competenze geografiche dettagliate su territori che spaziano in alcuni casi oltre 1000 km. Ad oggi, la transumanza è considerata uno dei metodi di allevamento più sostenibili ed efficienti, in grado di valorizzare aree soggette ad abbandono e contribuire al mantenimento di elevati livelli di biodiversità, prevenendo la scomparsa delle aree aperte e della fauna e flora ad esse legate.

Analogamente alla transumanza, l’Arte dei muretti a secco e il paesaggio terrazzato che ne deriva, comune a tutte le culture mediterranee e non solo, rappresenta una fondamentale pratica che minimizza l’erosione del suolo, massimizza la ritenzione idrica dei suoli in periodo estivo, consente il presidio agricolo in aree dove l’agricoltura non sarebbe praticabile e crea un mosaico ambientale che interrompe la continuità della vegetazione infiammabile, riducendo anche in questo caso il rischio di incendi devastanti. Ma non è forse anche uno degli elementi paesaggistici che contribuiscono a rendere uniche al mondo le Cinque Terre e che hanno reso possibile il loro riconoscimento come patrimonio dell’umanità?

Una particolare commistione tra elementi immateriali esiste anche sull’isola di Pantelleria, dove i terrazzamenti con muretti a secco sono in parte coltivati con il tradizionale ed unico metodo della Vite ad alberello, storicamente diffusissima nel Mediterraneo, ma sopravvissuta solo sull’isola figlia del vento, come recita l’etimo arabo della stessa. Ed è proprio il vento che ha indotto i panteschi a mantenere questa forma di viticultura, in cui la vite – di uve Zibibbo – viene mantenuta prostrata, come basso cespuglio, al riparo all’interno di piccole conche del terreno che contribuiscono ad incrementare ulteriormente la ritenzione nel terreno delle scarse precipitazioni. I legami tra gli elementi del Patrimonio Culturale Immateriale non si esauriscono qui, poiché il Passito di Pantelleria, prodotto dell’alberello pantesco, a sua volta è un PCI. Lo è in generale il vino, che insieme ad olio d’oliva, cereali, frutta e verdura fresca o secca, una quantità moderata di pesce, latticini e carne, e molti condimenti e spezie compone la Dieta mediterranea secondo la definizione dell’UNESCO. La cultura della dieta mediterranea è indissolubilmente legata al concetto stesso di biodiversità e sostenibilità, essendo caratterizzata da un’infinita varietà di produzioni adattate nei secoli alle particolari condizioni ambientali e climatiche di ogni regione del bacino mediterraneo e prevede un impiego di risorse naturali (suolo, acqua) meno intensivo rispetto ad un modello alimentare basato sul consumo di carni e grassi animali.

Transumanza, falconeria, muretti a secco, vite ad alberello, dieta mediterranea, liuteria, ma anche ricerca dei tartufi, alpinismo e metodi tradizionali di allevamento dei cavalli: sono un patrimonio culturale italiano che l’umanità ha deciso di salvaguardare per le prossime generazioni, nella consapevolezza che in queste pratiche si celi il segreto per la tutela della biodiversità del nostro Paese. Ma se le competenze naturalistiche hanno creato eccellenze culturali, se il saper gestire la natura in modo sostenibile significa dare vita ad un patrimonio culturale, forse natura e cultura devono essere coniugate e integrate, superando quella subordinazione che le scienze naturali e sperimentali vivono nei confronti delle scienze umane. Se natura è cultura, saper distinguere un pino da un abete è davvero meno culturale della stessa capacità applicata a Mozart e Beethoven?

Alessio Martinoli, esperto in gestione delle risorse naturali e Filippo Zibordi faunista, Istituto Oikos



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[email protected] (Redazione di Green and Blue) , 2023-01-11 13:35:33 ,

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Il post dal titolo: Natura è cultura e la lista del patrimonio culturale immateriale Unesco deve tenerne conto scitto da [email protected] (Redazione di Green and Blue) il 2023-01-11 13:35:33 , è apparso sul quotidiano online Repubblica.it > Green and blue

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