Il Romanzo Sanitario di un quartiere, di una città, di un Paese, è tutto rinchiuso dietro il cancello sbarrato con un lucchetto di via Casal dei Pazzi 16, Roma. Un tempo in questo villino a due passi dalla stazione Rebibbia c’era la Asl, un reparto di Fisiopatologia respiratoria e di Neurologia-neuropsichiatria, un centro di eccellenza sul territorio per la diagnosi e la riabilitazione delle malattie polmonari. Dagli anni Sessanta ha funzionato come sede distaccata del Policlinico Umberto I, poi nel 2008 la sanità della regione Lazio viene commissariata per un debito di due miliardi di euro, come molte altre regioni, e la struttura viene smantellata. Prima chiude l’ambulatorio della Asl, poi i piani superiori, poi, nel 2012, tutto.
Villa Tiburtina si occupava di malattie respiratorie e di neuro-psichiatria: per combinazione, quello che servirebbe oggi per fronteggiare gli effetti diretti della pandemia e quelli indiretti. Villa Tiburtina è il simbolo dell’Italiavirus. Di un Paese che nel corso degli anni ha progressivamente smantellato la sua sanità pubblica, i 37 miliardi di tagli tra il 2010 e il 2019 che la fondazione Gimbe denunciò nel suo rapporto del settembre 2019, quando il Covid-19 non aveva ancora avvelenato le nostre esistenze. Di una politica che ha provato a sostituire il servizio sanitario nazionale con la privatizzazione di cure, diagnostica, terapie, che si è ritrovata in mezzo alla tragedia del virus senza antenne sensibili sul territorio, perché in molte zone la rete non c’era più.
Un Paese che tre mesi dopo l’inizio del piano di vaccinazione di massa non è ancora riuscito a mettere al sicuro le sue categorie più fragili: gli anziani, i malati gravi. Mario Draghi al Senato ha parlato di «gruppi che vantano priorità probabilmente in base a qualche loro forza contrattuale». I più forti, i più tutelati, i più garantiti, anche in questo caso. Mentre ogni decisione si abbatte come una mazzata su una famiglia. Come l’apertura, o la chiusura, delle scuole.
Villa Tiburtina è un simbolo anche per un altro motivo. Perché racconta della crescita di realtà che si autorganizzano per riconquistare pezzi di territorio e di socialità. Il vero Recovery lo fanno loro. Non rappresentati dai partiti, non raccontati dai media, con la stampa e soprattutto con la tv appiattite sul racconto più facile e stereotipato, ignorati anche dal terzo settore che si è fatto establishment. Non sono populisti, sono popolo. Sono gruppi che tengono insieme il pragmatismo degli obiettivi – la riapertura di un presidio di medicina sul territorio – e la radicalità dei comportamenti. Fanno politica, dunque. Sono l’Altra Politica.
La raccontiamo in questo numero speciale dell’Espresso. Speciale perché all’interno c’è un altro giornale, il Romanzo Sanitario, per i lettori che ci leggono ogni settimana e per chi prende il giornale per la prima volta, la storia in esclusiva firmata da Michele Rech, ovvero Zerocalcare, l’autore italiano più amato, più letto, più discusso e meno rassicurante. Per se stesso e per noi.
«La retorica vince sempre sul degrado e la dissoluzione», la retorica aiuta a sopravvivere, «la estraiamo dalle erbacce e ci facciamo dei panetti che lecchiamo per farci forza», spiega uno dei personaggi di Zerocalcare, l’Angelo della Periferia, contrapposto al Mostro Smascellante, il prediletto dei talk televisivi, perché conferma la visione del mondo vista da una telecamera, ma anche con un taccuino: buoni contro cattivi, il volontario della mensa e il fascista tatuato, due facce della stessa deresponsabilizzazione.
Perché, in questa storia, noi ci tiriamo fuori. Noi che siamo partiti con l’inno nazionale ai balconi e ci siamo detti che sarebbe andato tutto bene, noi che ci siamo emozionati per i medici eroi e per gli insegnanti geniali che riuscivano a fare la scuola a distanza, per la corsa alla solidarietà delle imprese e per i sindaci in trincea. Poi è arrivata l’unità nazionale in politica e siamo passati dai migliori ministri del mondo al governo dei migliori, con l’arrivo dei generali stellati, anche il Pd si è sbarazzato dell’ennesimo segretario. Enrico Letta viene raccontato come una specie di Clark Kent che si è tolto gli occhiali da secchione – un tempo si faceva nelle cabine telefoniche – per trasformarsi in Superman. Via gli uomini dalla guida dei gruppi parlamentari, dentro le donne, piazzate però dagli uomini, sia chiaro, un pizzico di ius soli, tutto a posto.
Tutto a posto, ma nessuna responsabilità collettiva. La grande assente. Questa storia, raccontata così, non parla dello Stato. Non parla della politica. Non parla di chi si assume il peso di riparare quello che manca. Non i fiori da far germogliare in periferia. Ma strade, servizi, trasporti, scuole, centri di socializzazione. Associazionismo, mutualismo, mettersi insieme per un risultato, autogoverno. Un tempo, in una stagione ormai indefinita, erano le bandiere della sinistra, anche di quella istituzionale.
Di bandiere ha parlato Mario Draghi, nella sua prima conferenza stampa da capo del governo. «È chiaro», ha detto il premier, «che tutti i partiti sono entrati in questo governo portandosi una eredità di vedute, convinzioni e annunci fatti in passato. Tutti hanno bandiere identitarie: si tratta man mano di chiedersi quali sono le bandiere identitarie di buon senso e quali quelle a cui si può rinunciare senza fare danno né alla propria identità, né all’Italia». Parlava delle bandiere e delle bandierine di partito, il condono fiscale per la Lega, ad esempio.
Anche le bandiere sono retoriche. E in questi giorni ne stiamo vedendo sventolare tante. Le donne, ad esempio. Prima escluse nel Pd da ogni carica che conta: i nuovi ministri uomini, il nuovo segretario uomo. Poi recuperate come sottosegretarie o per regolare i conti tra i capicorrente. Uomini. Il risultato sono molti complimenti per il leader maschio che ha fatto il bel gesto di rinunciare a favore di una donna o di puntare sulle donne. E le donne ancora una volta tenute a distanza dalla lotta politica. Trattate come nel gioco nomi cose e città.
Un panetto di retorica anche per lo ius soli, sventolato senza poi assumersi tutte le conseguenze di questa battaglia nel ripensare le nostre categorie. Ne parla Djarah Kan: «Non possiamo parlare di Ius Soli senza ridiscutere i termini che utilizziamo per definire la nostra identità: Patria e Nazione». E tanta retorica, infine, sulle scuole aperte e chiuse. Ne parla Michela Murgia nell’Antitaliana. E l’articolo di Elena Testi, la seconda puntata dell’inchiesta dell’Espresso cominciata una settimana fa, con le voci dei ragazzi in anonimato, recuperate dai colloqui nei pronto soccorso o in reparto, che faticano a penetrare il dolore che sta soffrendo una generazione in questo anno. E il professor Renato Borgatti, direttore del reparto di Neuropsichiatria infantile della fondazione Mondino di Pavia, che accusa il mondo degli adulti e la politica per la didattica a distanza, «un modo per pulirci la coscienza, una scelta classista e antidemocratica. Vanno avanti i ragazzi che hanno una solidità e una maturità spiccata e famiglie alle spalle, tutti gli altri soccombono». La ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Elena Bonetti ha risposto all’appello che le aveva rivolto l’Espresso una settimana fa con una proposta importante: un Piano di salvezza educativa simile al Piano di Ripresa economica. È l’inizio di una riflessione. Continueremo a parlarne.
Una stagione politica di unità nazionale, dettata dai tempi dell’emergenza e della necessità, obbliga tutti a dire chi sei, cosa pensi. A rivendicare la propria identità che non è un’eredità del passato, ma una premessa di futuro. Per questo il numero speciale dell’Espresso è un progetto non solo editoriale, ma culturale. Il viaggio nell’Altra Politica che mette insieme il reportage di Floriana Bulfon, il racconto di Andrea Bauer, le fotografie di Francesco Pistilli, il fumetto di Zerocalcare. Per uscire dalla retorica del degrado, per inquadrare i volti, le voci, le inquietudini, le battaglie di un pezzo di Paese sconosciuto e essenziale. Raccontata con lo strumento che conosciamo, il giornalismo di qualità. Le nostre bandiere.