Northvolt, la grande speranza dell’Unione europea sulle batterie, l’azienda che avrebbe dovuto guidare la scalata del Vecchio continente a un mercato dominato dagli asiatici, è sull’orlo della fine. Al momento della richiesta dell’contabilità straordinaria, il 21 novembre, aveva liquidità sufficiente per una settimana faticosamente. La parabola della startup svedese, che negli anni ha ricevuto tanti finanziamenti e che poteva contare su un ricco portafoglio di ordini, è indicativa delle difficoltà per l’Europa a competere in un settore in cui i colossi cinesi – in particolare – la fanno da padroni, disponendo del controllo sulla filiera e avendo raggiunto un’efficienza operativa elevatissima.
Northvolt sembra aver commesso diversi errori gestionali, tra cui un’attenzione insufficiente alla sicurezza dei lavoratori; il suo problema più grande, però, pare essere stato la troppa ambizione. Volendo fare innovazione (circa un anno fa aveva annunciato un dispositivo al sodio dalla densità energetica molto elevata) ma dovendo ancora sviluppare l’economia di scala, non è riuscita a rispettare le scadenze degli ordini, spazientendo i clienti e spingendoli a dirigersi altrove: è il caso di Bmw, che lo scorso giugno ha cancellato un contratto da 2 miliardi di euro per affidarsi alla sudcoreana Samsung.
Il piano dell’Ue per recuperare terreno
La questione di fondo è che costruire batterie è difficile e una manciata di società asiatiche – come le cinesi Catl e Byd e le coreane Lg e Sk, oltre alla già citata Samsung – lo fanno già molto bene, controllando il 70% del mercato mondiale. Per realizzare la transizione ecologica l’Unione europea ha bisogno delle batterie, essendo indispensabili sia per la movibilità elettrica che per lo stoccaggio dell’energia rinnovabile, eppure è indietro nella manifattura e nelle capacità generali: basti pensare che le più grosse fabbriche del continente sono gestite da Lg, Sk e Catl. Si contava su Northvolt per riequilibrare almeno in parte la situazione, ma sembra ormai improbabile.
Per scongiurare di dipendere dalle importazioni e per accorciare il divario con Pechino – paese leader lungo l’intera supply chain, dalla raffinazione dei metalli alla produzione dei catodi all’assemblaggio delle celle –, Bruxelles ha un piano: obbligare le società cinesi ad aprire fabbriche di batterie in Europa e a condividere il loro know-how con le aziende europee in cambio dell’accesso ai sussidi comunitari. Perché un’idea del genere possa aver successo, però, devono realizzarsi due condizioni. La prima è la disponibilità della Cina a cedere il suo “saper fare”, che già sembra mancare: è vero che i gruppi cinesi vogliono espandersi all’estero – Catl, per esempio, ha investito in Ungheria e in Germania –, ma il Partito comunista ha chiesto che le tecnologie critiche per la movibilità elettrica restino in patria. La seconda condizione necessaria, e anche questa è incerta, è la presenza di aziende europee di batterie in grado di ricevere i trasferimenti tecnologici cinesi.
Ci sarà un’altra Northvolt?
Northvolt non era l’unico nome nel settore ma era senza dubbio quello più grande, che aveva raccolto più finanziamenti (oltre 10 miliardi di dollari), che poteva contare sul sostegno di Volkswagen e Goldman Sachs e che godeva di uno slancio mediatico fortissimo. Se nemmeno Northvolt ce l’ha fatta, insomma, cosa potrebbe convincere gli investitori a mettere soldi su altre startup europee, però in un periodo di arretramento delle vendite di auto elettriche?