Dove nessuno guarda, Veleno e il Dito di Dio sono solo alcuni dei suoi lavori che trovano nuovo spazio e nuova forma nel libro Come nascono le storie, scritto da Pablo Trincia, edito da Roi Edizioni, in libreria dal 18 settembre. Un libro che non ne ricalca pedissequamente la fattura ma fa un passo indietro, in cui l’autore si prende la libertà creativa di allargare la visuale, fare zoom out e assumere il punto di vista del lettore e dello scrittore assieme, del narratore e dell’uditore, del cineasta e del pubblico, convergendo assieme in un unico punto di vista che fa da chiasmo alla realtà.
Come nascono le storie si presenta come un vibrante affresco dell’arte di narrare, un saggio che unisce esperienza, vita personale, trepidazione, emotività in un’immersione nelle pieghe più intime e tormentate dell’esistenza dell’autore. “Quando ho cominciato questo lavoro non avevo idea che per i vent’anni successivi avrei conosciuto e toccato da vicino la sofferenza di un numero impressionante di persone, esponendomi spesso e inconsapevolmente a radiazioni emotive molto forti”. Il fulcro del libro è la riflessione sulla natura stessa della narrazione, un’analisi densa e ravvicinata che enfatizza come ogni essere umano, ogni oggetto, ogni evento contiene un piccolo universo da esplorare, da ascoltare e raccontare. “Io vedo racconti ovunque”, scrive l’autore: “Essere un narratore significa mettere un ‘c’era una volta’ davanti a tutto quello che ti si presenta lungo il cammino”. In questa visione si percepisce un profondo rispetto per il potere del racconto, inteso non solo come mezzo per trasmettere informazioni, ma come strumento per avvicinarsi all’altro, per comprendere le emozioni universali che ci legano e ci accomunano.
Questa capacità di cogliere e trasformare in racconto anche i dettagli esteriormente insignificanti si riflette in uno degli episodi più rivelatori del libro, quando Trincia racconta di aver letto un articolo del New Yorker del 2014 intitolato “Up And Then Down” (il sottotitolo del pezzo è “The lives of elevators”, le vite degli ascensori). Chi mai avrebbe pensato di dedicare mesi di osservazione agli ascensori? Eppure, quel long read si è rivelato straordinariamente affascinante per l’autore, un indicatore puntuale del fatto che persino un oggetto così comune potesse diventare lo spunto per un racconto epico: “Che si parli di un’isola o di un ascensore o di qualsiasi altra cosa, quella che in fondo raccontiamo è sempre la storia del rapporto che noi umani abbiamo con l’oggetto del racconto”.
Narrare è un atto d’amore
Un bravo narratore, secondo Trincia, non si limita a raccontare una storia: “Deve fare da pendolare tra il palco e la platea”, ossia deve costantemente mettersi nei vestiti del pubblico, capire se tutto è chiaro, se ogni dettaglio viene colto. Una narrazione efficace richiede, quindi, non solo passione, ma anche onestà, una meticolosa osservazione delle fonti, una capacità di esplorare in profondità ogni aspetto della storia. L’autore, infatti, paragona la narrazione alla caduta di un meteorite: “Una storia è come un cratere generato dalla caduta di un meteorite. Non ha senso cercare solo attorno al punto di impatto. A volte i minerali più utili e interessanti si trovano nei luoghi più lontani”. Questa abilità, questa postura, tuttavia, richiede un amore profondo per la storia che si sta raccontando. “Narrare significa innanzitutto amare”, ci ricorda l’autore: “Se non amiamo una storia non potremo mai raccontarla bene”. Ed è proprio l’amore per il racconto che spinge Trincia a immergersi integralmente nei suoi progetti, anche a costo di sacrificare tempo, energie e pace interiore. Questa dedizione incondizionata traspare in tutti i suoi lavori, dai podcast di successo, alle inchieste, ai documentari che esplorano gli angoli più oscuri e dolorosi della realtà e della nostra contemporaneità.
Leggi tutto su www.wired.it
di Lucia Tedesco www.wired.it 2024-09-18 14:30:00 ,