di Lorenza Negri
Pachinko – La moglie coreana, period drama originale di AppleTv+ al suo debutto il 25 marzo, vanta probabilmente la sigla di più bella del millennio (di quelle che provocano dipendenza, abbiamo ricevuto gli episodi in anteprima il tre febbraio e ne siamo ancora innamorati). Il pregevole cast ingaggiato per raccontare la storia di Sunja, dei suoi genitori, dei suoi figli e dei suoi nipoti balla scatenato sulle note di Let’s Live for Today. Sprizza felicità e gioia di vivere, nonostante i rispettivi personaggi, lungo un’arco di settant’anni che culmina nel 1989, patiscano ciascuno esperienze durissime. Sunja è appena adolescente quando l’occupazione giapponese e un amore tempestoso la costringono ad abbandonare la Corea per trasferirsi in Giappone, dove i zainichi, gli immigrati coreani come lei, subiscono discriminazioni e abusi. Per il bene dei suoi figli, Sunja e suo marito Isak, assieme ai cognati Kyung-Hee e Yoseb, affronteranno tutto.
La produttrice Theresa Kang ha spiegato che l’iconica sequenza – l’unica occasione per vedere tutti gli interpreti insieme – è una parte importante di Pachinko: “Tutti i personaggi affrontano trionfi, sconfitte e le asperità della vita” ha spiegato, “ma mentre ballano quella canzone irresistibile riusciamo a vedere chi sono veramente, al netto di quelle esperienze. Ci rivelano il loro bambino interiore, la loro gioia di vivere”. Pachinko è tratto da La moglie coreana (Ed Piemme), il romanzo pluripremiato di Min Jin Lee che la showrunner Soo Hugh ha adattato per il piccolo schermo realizzando una storia meno cruda e più poetica rispetto alla fonte: “Il libro è straordinario ma non volevo che il suo adattamento fosse speculare, bensì che fossero complementari. Tradurne le vicende in un medium visivo lo avrebbe reso troppo aspro, insostenibile, per cui ho cercato un equilibrio tra luce e buio, tra risate e lacrime”.
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Il risultato è maestoso: Pachinko è un’opera ambiziosa dalla gestazione durata quattro anni, un grandioso affresco storico e la cronaca delle tragedie di un popolo, quello coreano, sopravvissuto a un secolo di traversie, raccontata tramite le vicende di una singola, anonima famiglia. La saga di Sunja si riflette in quella della Corea, ma Pachinko non è esattamente un k-drama, nonostante Soo Hugh e Theresa Kang (americane di origini coreane) ne siano fan sfegatate e gli attori Youn Yuh-jung e Lee Min-ho ne siano volti celebri. E nonostante più di metà degli otto episodi siano parlati in questa lingua: “Ci siamo avvicinati al progetto molto prima del successo di Parasite” ci ha informato il produttore Michael Ellenberg, “Sapevamo che una parte di pubblico, quella che ama i k-drama, non avrebbe avuto problema con la lingua. Abbiamo anche pensato specificatamente al pubblico italiano perché sapevano che predilige il doppiaggio. Tuttavia siamo andati oltre, e in Pachinko si parla anche americano e giapponese. Era necessario per riportare la storia dei personaggi fedelmente, basti pensare a Solomon [il nipote di Sunja, giapponese di genitori coreani che lavora negli Usa, ndr] che quando parla inglese esprime differenti sfumature della sua personalità rispetto a quando parla giapponese. La lingua restituisce un’emozione specifica”.
Lo show non segue l’ordine cronologico della storia, piuttosto salta avanti e indietro nel tempo legando personaggi e situazioni. Buona parte della narrazione si concentra su Solomon, figlio di un gestore di sala da Pachinko e impiegato di un’agenzia americana nel 1989. Il suo interprete Jin Ha, lodata star di Hamilton, ci ha detto la sua sull’accurata ricostruzione dei patinati anni ’80: “Non ero ancora nato nel 1989, ma sono cresciuto negli Usa dove l’immagine trasmessa di quel periodo era quella di un decennio sgargiante. Ho dovuto invece studiare il Giappone di quegli anni e mi sono lasciato prendere tantissimo, specialmente dalla musica e da una canzone in particolare, Ride on Time di Tatsuro Yamashita. La canto in continuazione”.
La sontuosità della ricostruzione storica, agevolata da un budget ingente, è uno degli aspetti più impressionanti di Pachinko, produzione che ha il respiro dei grandi, indimenticabili sceneggiati britannici (e nostrani); merito della ricerca meticolosa (ha indagato addirittura le dimensioni dei cavoli da kimchi negli anni Trenta!) e quasi ossessiva di Soo Hugh. Le sue indagini decisive le hanno suggerito di espandere la narrazione verso confini inediti rivelando il passato e il futuro di alcuni personaggi, e in particolare di Ko Hansu, figura criptica, seducente e ambigua dello yakuza con cui Sunja divide alcuni momenti cruciali della propria esistenza: “Discutendo i personaggi con i miei sceneggiatori” ha commentato Soo Hugh, “Ci siamo soffermati su Ko Hansu e ci siamo chiesti da dove venisse, chi fosse davvero. Mi sono resa conto che volevo sapere di più di lui e del suo passato così ho pensato che potevamo dare noi stessi una risposta”.
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Un intero episodio incentrato su un flashback inedito rispetto al romanzo è dedicato a Ko Hansu, allo scopo di rivelare i motivi che lo hanno reso un gangster. Chi ha letto il romanzo troverà un personaggio diverso: al posto di un vero e proprio irredimibile cattivo troviamo una figura meno cinica, più onorevole e morale, quel tipo di villain di cui ci si innamora. La regia gli riserva primi piani che indugiano sul volto, ne sottolineano il fascino imperscrutabile e la prorompente bellezza, quasi a voler irretire il pubblico (non senza un pizzico di consapevole fanservice, tanto che Soo Hugh aveva pensato di stampare delle T-shirt per il “Team Hansu” e altre per il “Team Isak”, l’altro uomo nella vita di Sunja). Avvolto dai gessati eleganti da gangster c’è Lee Min-ho, figura iconica del panorama seriale della Corea del Sud e interprete di k-drama popolarissimi come Boys Over Flowers e City Hunter (entrambi ispirati a manga giapponesi), Heirs, Legend of the Blue Sea e il recente The King; Eternal Monarch di Netflix.
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Lo statuario attore ha trovato nella tendenza a “guardare avanti senza lasciarsi governare dal passato” un punto in comune con un personaggio altrimenti poco affine. Per interpretate il mafioso ha guardato e riguardato l’interpretazione di Al Pacino in Il padrino e spera di essere riuscito a offrire lo stesso tipo di performance. Ad aiutarlo molto è stato entrare letteralmente nei suoi panni, ovvero nei costumi sofisticati di Ko Hansu: “Il guardaroba aiuta l’attore a ‘sentire’ il personaggio, ma per Ko è anche più importante: a volte lo usa per celare la propria identità, altre per ostentare il potere che ha nella società”. La sua relazione con Sunja devia prepotentemente il corso dell’esistenza di Sunja, ha un impatto epocale in diverse fasi della sua vita e di quelle dei suoi cari.
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Nei panni di quest’ultima, umile figlia di albergatori piena di forza, umiltà, dignità e senso di sacrificio, tre interpreti, tra cui l’esordiente Kim Min-ha e la veterana della Hallyu (la nouvelle vague coreana) Youn Yu-jung. A Min-ha recitare il ruolo di Sunja è costato svariati momenti di commozione – “Ho pianto tantissimo, la serie è così piena di momenti emozionanti” -, ma per interpretarlo non si è accordata con le altre interpreti: “Non avendo, ovviamente, scene insieme, per noi era impossibile incontrarci sul set e confrontarci sul personaggio e come interpretarlo” ha ricordato, “Eppure, non so spiegare come, sapevamo di avere una connessione, sapevamo quale tipo di Sunja corrispondeva a ciascuna”. Chi scrive ha consegnato alla stampa cartacea il suo primo articolo sulla Hallyu almeno quindici anni fa: di centinaia di personaggi convincenti di donne coreane conosciuti in film e serie, Sunja resta una delle più memorabili. La sua riservatezza, il suo dolore relegati al profondo dell’anima, il suo stoicismo modesto, ne fanno una figura letteraria e televisiva fenomenale.
A riconoscerlo, anche la talentuosa star del cinema e della televisione asiatica Youn Yu-jung, la prima attrice coreana a vincere l’Oscar, l’anno scorso, grazie a Minari: “Ho 74 anni e una lunga carriera alle spalle. Non lo dico per vantarmi” ha confessato, “Ma faccio questo lavoro da tempo e tutti i ruoli ormai sono per me la stessa cosa, non sono speciali. Eppure questo è riuscito a smuovermi. È molto raro che un personaggio mi emozioni, ma la sua onestà, forza e volontà di sopravvivere mi hanno fatto provare un legame con lei”. A lei abbiamo chiesto come mai piccoli paesi come l’Italia e la Corea del Sud sono riusciti in tempi e condizioni diverse a conquistare Hollywood con il loro cinema: “Quando il regista Bong Joon-ho di Parasite ha vinto l’Oscar ha infranto una barriera. Poi sono usciti Minari e Squid Game e improvvisamente il resto del mondo si è accorto di noi, ma i coreani adorano guardare – e fare – bei film serie da sempre”.
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www.wired.it
2022-03-22 14:00:00