Siamo tutti uguali di fronte allo sport? Sì, ma anche no. Nel suo saggio Partire (S)vantaggiati (edito da Fandango) Silvia Camporesi, bioeticista ed esperta di etica dello sport, dottoranda all’Università di Vienna e al King’s College di Londra, parte proprio da una considerazione molto semplice: “Il vantaggio è la chiave dello sport. Avere un vantaggio sull’avversario è ciò che ogni atleta ricerca in competizione”. Ma come regolarsi quando questo vantaggio viene non da volontà malevole di ingannare o sopraffare gli avversari, ma da fortuiti casi della vita? Si citano i casi di Eero Mäntyranta, sciatore olimpico finlandese che per via di una mutazione genetica produceva un tasso di ematocrito nel sangue molto più elevato della norma (una specie di “doping naturale”) o di Caster Semenya, atleta intersessuale – nata cioè con tratti sessuali sia maschili sia femminili – e quindi accusata di avere un vantaggio nelle competizioni femminili a cui partecipava.
Lo stesso divario ha riguardato Oscar Pistorius, ora in carcere per aver ucciso l’ex fidanzata, ma che ai tempi d’oro venne messo in discussione dalla Corte Suprema per lo Sport con l’accusa di “vantaggio iniquo” (unfair advantage), tanto da far valutare se le protesi con cui gareggiava gli conferissero o meno un vantaggio nella competizione. “La specie umana, come le altre specie di mammifero, non è binaria dal punto di vista sessuale, quindi politiche di regolamentazione sportiva che cerchino di catturare un binarismo che non esiste attraverso un test cromosomico, genetico o molecolare sono inevitabilmente destinate a fallire”, sostiene poi Camporesi. In altre parole il suo è un invito a valutare la complessità della realtà, che sfugge alle semplificazioni in bianco e nero, nello sport così come in tanti altri campi.
Eppure di situazioni come queste sono piene la storia e l’attualità dello sport. Quindi si aprono dibattiti infiniti che dividono la comunità sportiva e non solo: mentre il concetto di atleta cambia e si evolve, sorge il dubbio che le disabilità diventino super abilità, o che le biotecnologie possano influire in modo fondamentale il futuro delle varie discipline. È lecito fondere le categorie tradizionali con quelle paralimpiche? Fino a che punto le protesi, soprattutto di ultima e avanzatissima tecnologia, alterano un vantaggio naturale? Come considerare condizioni biologiche come l’iperandrogenismo quando si differenziano i competitor in base al sesso?
Questo saggio si fa carico di tutti questi quesiti, affrontando il tema di vantaggi naturali e artificiali e dell’uso delle tecnologie nello sport ed entrando nel vivo della questione dei criteri secondo cui diversi tipi di vantaggi possono essere considerati equi oppure iniqui, e di come questa questione chiave non sia stata affrontata finora dal diritto sportivo internazionale. Una dimensione se vogliamo complessa e lontana dalla quotidianità nostra (che non siamo tutti atleti ad alto livello internazionale), ma che in realtà tange tantissimi temi di interesse universale (le disparità di genere, l’abilismo, la discriminazione e le pari opportunità per esempio): “Lo sport e le sue federazioni devono sottostare alle stesse regole e criteri per ammissibilità di evidenza scientifica in tribunale, e allo stesso livello di rispetto dei diritti umani che ci si aspetta negli altri contesti della nostra società”, è l’auspico che muove la ricerca dell’autrice, che mostra come i casi di cui parla in fondo non giustifichino l’eccezionalità del mondo sportivo, che ad oggi continua a autoregolamentarsi come se fosse un universo a sé.
Camporesi ha costruito questo saggio con precisione e abbondanza di informazioni, studi e fonti, ma di base è mossa da una viscerale empatia, motivata anche dalla sua personalissima passione per lo sport, da ex atleta qual è: “La mia passione personale per lo sport è di lunga data e si è tramutata poi, o è confluita, nel mio lavoro su etica e sport, in modo serendipitoso”, dice lei stessa nella prefazione. Da ciò deriva anche un’altra importante lezione, che riguarda il linguaggio con cui parliamo di certi temi, spesso approssimativo e di conseguenza discriminatorio, quando invece dovrebbe essere inclusivo e rispettoso: “Scrivo atleti paralimpici, e anzi dove posso senza appesantire troppo il linguaggio, scrivo atleti che corrono o gareggiano con tecnologia assistiva”, perché appunto le parole, come le regole, sono sempre importanti.
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di Paolo Armelli www.wired.it 2023-10-18 15:03:55 ,