Una bambina si lascia cadere sul divano, in salone, mentre la madre sta guardando la tv (si sono appena tenute le elezioni). Afferra un cuscino e lo stringe allo stomaco. Sono preoccupata, dice. Che ci accadrà ora che Giorgia è il capo? In quel periodo, per la prima volta, si allontana da abitazione per le vacanze col gruppo scout. È un rito universale di passaggio, che segna la fine dell’infanzia. Ed è questa congiuntura, insieme collettiva e privata, che spinge le madri di Barbara — imprenditrice e scrittrice Eugenia Romanelli, giornalista Rory Cappelli — a scrivere “Nata con noi”.
Vado a trovarle in occasione dell’uscita del libro. Ci frequentiamo da tempo, abbiamo condiviso idee, parole, qualche sprazzo di vita (memorabile la festa delle loro nozze). Ritrovo le foto sui muri, le piante del balcone e l’altare del buddismo Nichiren, cui Rory ed Eugenia sono devote e che ha dato il terzo nome alla figlia: Tsukimaro (“Parto facile di un figlio fortunato”). So quale denudamento e vulnerabilità comporti la scrittura. E quanto il tema del libro divida e scateni odio. Per questo chiedo cosa le abbia convinte a raccontare la storia della loro famiglia. Certo scrivere è un gesto politico, sebbene meno esplicito dell’urlo in piazza, risponde Eugenia, ma lo scopo più importante è creare una narrazione, perché «fin dalla tesi di laurea lavoro sull’immaginario. Termine datato, perché oggi si dice rule model: quindi creare rule models che possano generare pensiero, memoria, fantasia, desiderio» — ispirare i propensi, convincere gli incerti, avvicinare i diffidenti.
«Una storia bella è più forte dei pregiudizi, può toccare il cuore di tutti», anche di chi aborre le famiglie omogenitoriali. «Cattivo vuol dire imprigionato: a 51 anni ancora credo che le persone non siano cattive, e sono ottimista». L’hanno guidata «l’istinto, un intreccio di mestiere, amore per quello che abbiamo costruito insieme e desiderio di condividerlo. Con l’obiettivo di essere autentica, ma anche di proteggere il progetto di vita e il nucleo familiare». I fatti sono reali, ma camuffati; come i nomi, tranne quelli delle autrici. La voce sua e di Rory si alternano: un capitolo per una. Ma suoi sono il montaggio e la regia narrativa.
Rory, «più barricadera», si riconosce invece «un movente più politico che affettivo», e la volontà di compiere «un’azione necessaria in un tempo in cui dopo l’avvento al potere della destra il nostro stesso diritto all’esistenza è stata messo in pericolo». Del resto lei — che è «sempre stata dall’altra parte», perché il suo mestiere di cronista è raccontare gli altri — ha forzato la sua natura schiva, ha preso posizione e si è esposta fin dalla nascita di Barbara, salutata da una “culla”: l’inserzione con cui i colleghi di Repubblica danno il benvenuto alla prole di chi lavora al giornale. Non era mai accaduto per la figlia di due donne: fu una rivoluzione concettuale spontanea, ed eloquente. Da allora Rory ha scritto molti articoli, e tenuto un blog, in cui raccontava «lo sgomento di non avere nessun tipo di tutela» (in quanto madre non biologica, «non ero nessuno») e affrontato la pionieristica battaglia legale per l’adozione di Barbara.
Infatti, avuta notizia della prima sentenza che riconosceva la stepchild adoption, hanno presentato richiesta al Tribunale dei Minori e ottenuto il riconoscimento dell’articolo 44 comma d (dice che nell’interesse superiore del minore il legame affettivo può essere valorizzato con l’adozione speciale). Ma il pm avversò la sentenza e fece ricorso. La giudice richiese la Ctu (Consulenza tecnica d’ufficio): prima volta per una coppia lesbica. Un anno di valutazioni, intrusioni nel privato, visite a sorpresa del consulente con le sue assistenti, test della personalità e telecamere nascoste, come se Rory fosse una madre abusante o criminale. Ha dovuto ripercorrere ogni episodio della sua vita (peraltro ferita da traumi dolorosi), dimostrare di sapersi occupare della figlia (perfino i loro giochi erano probanti). Un’esperienza violenta, che l’ha segnata. Ma la relazione è stata superfavorevole, commenta Eugenia: qualunque madre vorrebbe essere descritta con le parole del consulente — e da allora Rory è genitrice a tutti gli effetti. «Io voglio essere — dice — uno di quei mattoni con cui pavimentare la strada e far camminare altre persone».
“Nata con noi” si apre con un dialogo in cui le madri le chiedono se sia d’accordo a «raccontare tutta la verità», e si chiude con una letterina di Barbara, che ricorda ai lettori di essere «fiera» della sua famiglia: coinvolta nel progetto fin dall’inizio, come fin da subito — precisa Rory — «ha saputo dove è nata e come, cosa abbiamo fatto per averla». Le hanno infatti sempre parlato del donatore, “l’omino gentile” che ha dato il seme affinché lei potesse venire al mondo. La bambina è il nucleo del libro, ma questa è anche, o soprattutto, la storia di una coppia.
Due donne solitarie, che hanno lasciato la famiglia da ragazze, si sfiorano presto ma si incontrano tardi, grazie all’algoritmo che le abbina su Facebook, desiderano un figlio e non sanno come farlo, e poi si ritrovano ad allevare la bambina con lo stupore, le goffaggini, le aspirazioni di tutti e la paura degli effetti che le loro scelte avranno sulla vita di lei. E intorno, fra vacanze, scuola, amicizie interrotte o mai sbocciate, c’è una società talvolta benevola e partecipe (maestre, burocrati), che accoglie o finge di farlo: «Indubbiamente il privilegio della classe sociale — dice Eugenia — attutisce e silenzia gli attriti. In effetti non abbiamo mai avuto un episodio esplicito di omolesbotransbifobia all’esterno della nostra famiglia, ma internamente sì». Perché proprio le loro famiglie non le hanno accettate. Assente quella di Rory, orfana di genitori disfunzionali, ideologicamente ostile quella di Eugenia: e nemmeno la realtà della bambina e la sua normalità riescono a spezzare l’incantesimo del rifiuto. L’autofiction permette omissioni e licenze, ma la verità è la forza di questa storia.
Fra una madre normativa e visionaria e una contemplativa e conciliante, Barbara cresce curiosa, come tutti i bambini. «La cosa più difficile sono i suoi perché», ammette Eugenia. Perfino «terrificanti, in quanto sono io la prima a non capire perché non andiamo giù a qualcuno». Cresce artistica, sensibile, amante delle piante (figlia di un seme, sa far fiorire ogni cosa), ma con una personalità già abbastanza forte da rivendicare la propria attrazione per i maschi e imporre alle madri di togliere dalla sua camera i quadri con la sentenza che la riconosce figlia di entrambe: quella è la vostra storia, ma la mia è un’altra. È tornata, ci interrompe, deve far merenda. Strappa il permesso di una barretta al cioccolato e sparisce con l’enorme cane e la tata polacca. Un giorno leggerà. Scriviamo anche perché i figli sappiano di noi, e trovino le risposte quando non potranno più farci domande.
[email protected] (Redazione Repubblica.it) , 2023-05-07 05:14:25 ,www.repubblica.it