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Data : 2023-01-15 13:35:15
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Da oltre un mese in Perù sono in corso grandi proteste antigovernative e violente repressioni da parte della polizia. Finora negli scontri sono morte almeno quarantadue persone e i feriti sono centinaia. I manifestanti chiedono elezioni anticipate e dunque le dimissioni di Dina Boluarte, l’ex vicepresidente del Perù che a inizio dicembre aveva preso il posto di Pedro Castillo, rimosso dal suo incarico e poi arrestato per aver cercato di sciogliere il parlamento in un tentativo di golpe, prima che venisse votata la sua messa in stato di accusa.
Negli ultimi anni in Perù si è diffuso un grande malcontento nei confronti dei governi: a causa di una crisi politica prolungata, della corruzione molto presente tra i politici e i funzionari pubblici, ma anche a causa della crescente disoccupazione e delle disuguaglianze tra la cittadinanza. Boluarte è la sesta persona a ricoprire il ruolo di presidente del Perù dal 2016. E quasi tutti i suoi predecessori degli ultimi trent’anni sono stati incriminati per corruzione.
Le proteste
«Non un deceduto di più, abbasso la dittatura civile-militare», hanno chiesto ieri sui social network i manifestanti per lanciare una nuova giornata di protesta a Lima, la capitale del paese. Le contestazioni di piazza contro la nuova presidente Boluarte sono iniziate a dicembre. Quotidianamente, con una breve sospensione durante le feste di Natale e Capodanno, sono state bloccate strade e autostrade, sono stati organizzati scioperi, manifestazioni e posti di blocco in almeno dieci delle venticinque regioni del paese. Sabato, mentre le proteste proseguivano, il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza nella capitale Lima e altre tre province.
Negli scorsi giorni, nella regione di Cusco e del celebre sito archeologico del Machu Picchu, poliziotti e soldati sono stati schierati all’aeroporto, che per traffico aereo è il secondo del paese. Mercoledì è stato contenuto con l’uso di gas lacrimogeni un tentativo di intrusione nell’aeroporto da parte dei manifestanti, e temendone un altro giovedì 12 gennaio il ministero dei Trasporti ha sospeso «preventivamente» e «a tempo indeterminato» le operazioni di volo. È la seconda volta che accade nelle ultime settimane. È stato sospeso fino a nuovo avviso anche il collegamento ferroviario tra Cuzco e il sito del Machu Picchu per garantire la sicurezza dei passeggeri e del personale.
Gli scontri più violenti si sono verificati finora a Juliaca, nella regione di Puno, sulle Ande, dove qualche giorno fa un poliziotto è stato bruciato vivo dai manifestanti e dove i manifestanti decessi sono almeno diciotto.
Le proteste sono state gestite con estrema violenza da parte della polizia e del governo e la scorsa settimana la procura generale del Perù ha annunciato di aver avviato un’indagine sull’operato della presidente Boluarte, del primo ministro Alberto Otarola e dei ministri della Difesa e dell’Interno. Sempre la scorsa settimana, una delegazione della Commissione interamericana per i diritti umani (un organo dell’Organizzazione degli Stati Americani, OSA, creata nel 1959) è arrivata a Lima per valutare «la situazione dei diritti umani nel contesto delle proteste sociali».
Lo scorso 14 dicembre nel paese è stato dichiarato lo stato di emergenza. Alcune organizzazioni come il Coordinamento nazionale per i diritti umani (CNDDHH) accusano il governo peruviano di aver assunto una «deriva autoritaria». «Stiamo perdendo le nostre libertà, ci sono detenzioni arbitrarie, un uso sproporzionato della forza da parte di polizia e militari, perquisizioni illegali di sedi politiche», ha detto Jennie Dador, una delle rappresentanti del Coordinamento.
Le proteste sono state organizzate soprattutto nelle aree rurali e più povere del paese, dove il sostegno al governo di Castillo è sempre stato molto forte.
Perché
Pedro Castillo, un ex insegnante di sinistra di ispirazione marxista, era stato eletto presidente nel luglio del 2021 vincendo al ballottaggio con soli 50mila voti di vantaggio contro la rivale Keiko Fujimori, populista di destra e figlia dell’ex presidente Alberto Fujimori, che aveva governato il paese in maniera autoritaria dal 1990 al 2000. Nelle elezioni parlamentari che si erano svolte durante il primo turno di quelle stesse presidenziali le liste di sinistra avevano ottenuto solo 42 dei 130 seggi del parlamento, le liste di destra ne avevano guadagnati 47 e il centro 41.
Secondo diversi analisti, Pedro Castillo è stato un presidente incompetente. La sua presidenza è andata male fin dall’inizio. Le prime critiche che gli erano state rivolte avevano riguardato soprattutto le nomine del governo, che tra le altre cose avevano incluso quella di Guido Bellido come primo ministro. Bellido era accusato di avere posizione omofobe e misogine, oltre a essere considerato vicino al gruppo terroristico Sendero Luminoso. Un’altra nomina controversa era stata quella di Héctor Béjar agli Esteri. Béjar è un ex guerrigliero dell’Esercito di Liberazione Nazionale Peruviano, gruppo conosciuto per le sue posizioni vicine ai regimi autoritari di Cuba e Venezuela.
Durante i diciassette mesi del suo mandato, Castillo aveva nominato e poi sostituito circa ottanta funzionari governativi, aveva dato ruoli decisionali ad alcuni suoi alleati privi di esperienza politica, e aveva cambiato cinque governi. E mentre si era presentato come un candidato di rottura, contro di lui erano state aperte sei inchieste per corruzione. Castillo si era inoltre spostato politicamente sempre più a destra, assumendo posizioni molto controverse su diritti e aborto, tra le altre cose. Si era anche avvicinato ad altri governi populisti dell’America Latina, come quello dell’ex presidente del Brasile Jair Bolsonaro.
Nel frattempo, il suo governo non era stato in grado di mantenere le promesse fatte in campagna elettorale: migliorare, innanzitutto, le condizioni economiche delle aree più rurali e povere del paese che più avevano subìto le conseguenze economiche della pandemia. Il rincaro generale dei prezzi aveva via via alimentato il malcontento e le proteste di piazza.
Fin dall’insediamento, e potendo contare su poco più di 40 voti, Castillo aveva dovuto affrontare anche un Congresso molto ostile e composto per due terzi da forze di centro, di destra e di estrema destra. La sua presidenza era stata ostacolata anche dall’attiva opposizione delle élite del paese, che di fatto non avevano mai accettato che un semplice insegnante delle Ande prendesse il potere. Castillo non era insomma mai stato realmente in grado di governare, al punto che il primo dicembre l’Organizzazione degli Stati Americani aveva chiesto una «tregua politica» di cento giorni alle varie forze politiche.
Mercoledì 7 dicembre Castillo si era trovato ad affrontare il terzo tentativo da parte del Congresso di metterlo sotto accusa, dopo che i primi due non avevano raggiunto la maggioranza necessaria. Alla vigilia del voto, e piuttosto a sorpresa, l’ex presidente aveva tenuto un discorso in cui aveva detto: «Abbiamo preso la decisione di instaurare un governo di emergenza, per ristabilire la legge e la democrazia».
Questo tentativo era stato definito come un “autogolpe”, cioè come un tentato colpo di stato da parte di chi si trova al governo.
Tre ore dopo l’annuncio, diversi membri del suo governo si erano dimessi e le forze armate avevano diffuso un comunicato in cui dicevano che Castillo non aveva l’autorità per sciogliere il Congresso con un decreto straordinario. Il Congresso aveva poi votato la decadenza di Castillo e lui, mentre cercava di rifugiarsi presso l’ambasciata messicana, era stato arrestato con l’accusa di reati contro l’ordine costituzionale.
Il giorno stesso, nel rispetto della Costituzione, la vicepresidente Dina Boluarte aveva giurato come nuova presidente definendo la mossa di Castillo un colpo di stato. E subito erano iniziate le prime manifestazioni di protesta.
I manifestanti non chiedono un reintegro dell’ex presidente Pedro Castillo, ma la sua liberazione dal carcere, la rimozione della presidente Dina Boluarte, lo scioglimento del Congresso, la convocazione di un’Assemblea Costituente e elezioni anticipate. Nuove elezioni sono state indette per l’aprile del 2024. Ma la scadenza, per chi protesta, è troppo lontana.
Una crisi strutturale
Le proteste nate dalla recente vicenda di Castillo si inseriscono nel contesto di una crisi politica più ampia. La grande instabilità politica e il fatto che negli ultimi anni moltissimi funzionari siano stati accusati o condannati per corruzione hanno infatti contribuito ad alimentare la sfiducia nei confronti della classe politica peruviana.
Nel 2017 Ollanta Humala, presidente del Perù dal 2011 al 2016, fu arrestato con l’accusa di corruzione nell’ambito dell’enorme scandalo Odebrecht, che riguardava la più grande società edile dell’America Latina e che arrivò a coinvolgere 14 paesi del continente. Nel 2019 Alan García, presidente dal 2006 al 2011, si suicidò poco dopo che la polizia era entrata nella sua dimora a Lima per arrestarlo: anche lui era indagato per lo scandalo Odebrecht.
Nel novembre del 2020 il Congresso votò a favore dell’impeachment dell’allora presidente Martín Vizcarra, accusato tra le altre cose di aver accettato tangenti per l’equivalente di circa mezzo milione di euro quando era governatore della regione di Moquegua. Vizcarra, un centrista, era diventato presidente nel 2018 prendendo il posto di Pedro Pablo Kuczynski, che si era dimesso improvvisamente dopo essere stato a sua volta accusato di corruzione. Al posto di Vizcarra fu nominato Manuel Merino, che però si dimise nel giro di pochi giorni in seguito ad alcune proteste violente. Il 17 novembre il parlamento del Perù elesse Francisco Sagasti nuovo presidente ad interim del paese, il terzo nel giro di una settimana, poi sostituito da Castillo.
L’insoddisfazione dei cittadini è rivolta anche al potere legislativo. A novembre, un sondaggio ha mostrato come l’86 % delle persone avesse un’opinione negativa del Congresso e dei partiti che lo compongono, considerati soprattutto come gruppi di potere a difesa di interessi particolari: «Quello che chiamiamo centro, è in realtà un insieme di gruppi affiliati a milionari senza altra dottrina che difendere i propri affari», ha ad esempio spiegato il giornalista peruviano Marco Sifuentes. Le richieste dei cittadini sono rimaste a lungo inascoltate e l’attuale rifiuto del Congresso di indire elezioni immediate ne è un’ulteriore dimostrazione.
Il Congresso è stato poi accusato dai manifestanti di aver abusato del proprio potere. Il sistema politico peruviano prevede un sistema di controllo fra presidente e Congresso che, in determinati casi, rende di fatto molto complesso governare. Il Congresso può ad esempio votare la decadenza del presidente con la motivazione generica di «incapacità morale permanente»: «In Perù, non devi dimostrare nulla per mettere sotto accusa un presidente: hai solo bisogno di due terzi dei voti al Congresso», ha detto Sifuentes. Il risultato è che difficilmente un presidente peruviano è arrivato al termine del proprio mandato e che negli ultimi sei anni si sono succeduti sei diversi presidenti.
Il paese sembra ingovernabile e pochi analisti in Perù vedono una soluzione alla crisi. Le proteste «sono solo l’ultima tappa di un lungo ciclo di instabilità», ha detto Patrick Clark, docente esperto di Perù alla York University di Toronto: «Penso che queste proteste siano dovute all’esasperazione delle persone».
Alcuni esperti affermano che i prolungati disordini politici del paese richiedano soluzioni profonde, come una nuova Costituzione o la fondazione di partiti politici più strutturati che consentano ai governi di durare più a lungo. Altri non riescono ancora a capire che cosa succederà: «Per la prima volta nella mia carriera, non ho idea di cosa potrebbe succedere domani», ha detto Sifuentes.
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