E di cui la lettera della federazione industriale, formalizzata qualche giorno prima, non ha ancora contezza. Ma di cui può anticipare il senso, dati i precedenti: “La mancata inclusione di controlli sul blocco ha portato a numerosi casi di blocco di grandi provider cloud che ospitano un numero significativo di siti web, causando così agli utenti la perdita dell’accesso a un gran numero di siti web globali senza alcun legame con la pirateria”.
Stretta in arrivo
Nel testo si dà conto anche degli emendamenti a firma Forza Italia e Fratelli d’Italia al decreto legge omnibus, presentati e approvati, che ampliano i poteri di azione di Piracy Shield. Tra cui l’imposizione di bloccare un indirizzo Ip non solo se è univocamente destinato ad attività illecite, come prescrivevano le regole precedenti, ma anche se lo è in modo “prevalente”. E l’obbligo per tutti coloro che offrono servizi internet, dalle società di telecomunicazioni ai fornitori di servizi di hosting, di segnalare persino il sospetto di attività illecite online. Pena: risponderne in tribunale rischiando fino a un anno di carcere.
“Questi requisiti ampi e generalizzati, ora in vigore, potrebbero interrompere indiscriminatamente i servizi globali e l’accesso a internet senza una supervisione adeguata e sono in contrasto con le norme internazionali – lamentano dalla Coalizione delle infrastrutture di internet -. Il blocco imposto dal Piracy Shield ha avuto un impatto negativo sia sui provider di rete statunitensi sia sulle aziende statunitensi i cui siti web sono stati bloccati in modo inappropriato a causa delle insufficienti misure di sicurezza italiane. Il sistema ha portato non solo a frustrazioni tra gli utenti e i provider di servizi cloud, ma ha anche indotto alcuni provider vpn a cessare le loro operazioni in Italia a causa dei requisiti onerosi imposti dal Piracy Shield”. Il riferimento è ad Airvpn, che ha chiuso le attività a febbraio, a pochi giorni dall’avviamento della piattaforma anti-pirateria.
La debacle interna
Che il giudizio su Piracy shield in questa lettera sia negativo è evidente. A firmarla ci sono alcune delle aziende che più hanno protestato contro la sua applicazione, come Cloudflare. L’opposizione però non è ideologica, ma fondata sui problemi ormai manifesti della piattaforma. Mentre non sono noti i “benefici” che avrebbe apportato alla lotta alla pirateria, sono evidenti le conseguenze negative: siti innocui bloccati; aziende oscurate da internet senza saperlo (nessuno è tenuto ad avvertire) e magari senza gli strumenti per fare ricorso (che deve essere presentato entro cinque giorni); costi di manutenzione a carico della collettività (250mila euro solo nel 2023); un sistema di white list per tutelare i siti dal blocco che non è trasparente e non si sa cosa contenga; il rischio che le nuove regole generino una valanga di segnalazioni alle procure.
Spetterà ora all’ufficio statunitense decidere se includere queste osservazioni nel suo rapporto finale e riconoscere Piracy Shield come un ostacolo al commercio, ma il solo averlo menzionato in questo contesto la dice lunga sugli effetti collaterali della piattaforma scelta dal governo italiano, che non la vuole mollare, nonostante le evidenze, le proteste di associazioni di categoria locali (come l’Associazione italiana internet provider e Assoprovider) e le spinte interne anche ad Agcom a una sospensione per ri-progettarla. Nel frattempo val la pena guardare a chi siamo appaiati dentro il report: oltre alla Francia, anch’essa segnalata per le leggi anti-pirateria, nel report ci sono Russia, Iran, Myanmar e Pakistan. Non certo dei campioni della libertà in rete.
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di Luca Zorloni www.wired.it 2024-11-05 05:55:00 ,