Passo dopo passo, pezzo dopo pezzo, stiamo pagando il (caro) prezzo quotidiano di aver eletto la maggioranza parlamentare più a destra della storia repubblicana, piattaforma di un governo nazionalista e grottescamente appeso a battaglie fuori tempo e soprattutto fuori fuoco rispetto a bisogni, richieste e sensibilità degli italiani del 2023. Direi quasi una tassa psicologica aggiuntiva che ogni settimana ci riserva nuove grandi e piccole vergogne.
Accade anche (e soprattutto) in quegli ambiti ai quali l’opinione pubblica è forse meno attenta. Per esempio, quello delle nomine dirigenziali per i musei statali. Alcuni incarichi sono in scadenza il prossimo autunno, per la precisione quelle dei direttori di 13 musei che fanno riferimento al ministero della Cultura, quattro di prima fascia, fra cui le Gallerie degli Uffizi. Il ministro Gennaro Sangiuliano vuole che i loro sostituti parlino italiano. Ma non in modo sufficiente a farsi capire: Repubblica spiega che nei nuovi bandi in preparazione per quella dozzina di incarichi di alto rilievo sarà proprio prevista una certificazione ufficiale come, si immagina, gli attestati Celi o Cils.
Non potendo escludere candidati dagli altri 26 paesi dell’Unione Europea pena la nullità dei bandi, a via del Collegio Romano – stretti nella propaganda di consulenti che paiono saltati fuori da un mondo ormai scomparso e ai quali non si sa spesso neanche cosa replicare – puntano dunque sulla trappola linguistica. E pace se cultura e competenza manageriale, specie nel mondo dell’arte, non hanno per natura confini linguistici. Così come non ne hanno i rapporti e le relazioni che istituzioni di questo genere intrattengono con musei ed esperti di ogni parte del mondo. Dove, a dirla proprio tutta, sono altri gli strumenti centrali per il lavoro quotidiano.
La lunga battaglia con i direttori dei musei, accusati all’ultima pasquetta di essere dei lavativi e convocati il prossimo 15 agosto per un fantozziano pranzo di lavoro balneare, continua. La destra, come con la rivoluzione che sta per decollare in Rai, consuma la sua agognata crociata nei gangli del sistema culturale italiano. Lo fa col coltello fra i denti, senza risparmiare nulla e nessuno nella crociata contro il “politically correct”, la sensibilità “woke” (ma magari), alla ricerca di un presunto pluralismo e di spazi di espressione che dice di essersi vista negare per anni. Pure se Giorgia Meloni divenne ministra della Gioventù 15 anni fa, nel 2008.
Una delle mosse è appunto tentare di escludere più candidati stranieri possibili dalla guida delle istituzioni statali nostrane. Al momento ce ne sono una decina, come Eike Schmidt proprio agli Uffizi, Stéphane Verger al Museo nazionale romano, Gabriel Zuchtriegel agli scavi di Pompei, Dominique Meyer sovrintendente alla Scala o Stéphane Lissner al San Carlo di Napoli. Oltre a Schmidt, in scadenza in autunno dopo due mandati ci sono per esempio Sylvain Bellenger al Museo e Real Bosco di Capodimonte e James Bradburne alla Pinacoteca di Brera. Un’occasione troppo ghiotta, imperdibile perché vengano nuovamente occupati da esperti stranieri secondo una procedura di selezione trasparente. Stavolta sarà una commissione di esperti a scegliere un terzetto per ciascuna struttura, da cui verranno fuori i prescelti. Una terna finale alla quale accederanno solo quelli che parlano davvero italiano. Non basterà masticarlo.
A masticare amaro, come si diceva all’inizio, siamo invece noi. E non perché manchino candidati italiani di assoluto rilievo o perché ciò che arriva da fuori sia sempre meglio. Figuriamoci. Ma proprio perché questo discorso, specialmente in alcuni ambiti, non ha alcun senso. È il massimo esempio del provincialismo che ci mangia il futuro. Come nella scienza, anche nei percorsi manageriali culturali l’Italia ha un disperato bisogno dei migliori (lo dimostrano gli ottimi risultati proprio di Pompei o degli Uffizi). E, se possibile, ha bisogno di personalità il più possibile svincolate da legami e clientele con la politica e i potentati locali. Ecco perché conoscere l’italiano con un certificato linguistico – per quel genere di ruoli apicali e con una pletora di collaboratori a disposizione – non dovrebbe essere considerato un parametro discriminante tale da poter escludere dalle candidature personalità dal curriculum di assoluto livello.
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di Simone Cosimi www.wired.it 2023-05-11 10:23:50 ,