“Non conoscevamo Giulio Regeni, non era un agente del Servizio Italiano, non lo conoscevamo e non risultano elementi di familiarità diretta o indiretta con lui. Chiesi ai servizi inglesi se fosse una loro fonte: mi è stato detto di no. Credo che la risposta negativa fosse reale“. A spiegarlo Alberto Manenti, ex direttore dell’Aise, nel corso della sua attestazione davanti ai giudici della Corte d’Assise di Roma, al procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi e all’aggiunto Sergio Colaiocco, nel processo per il rapimento, le torture e l’omicidio del ricercatore friulano, scomparso il 25 gennaio 2016 al Cairo, e il cui corpo fu ritrovato senza vita il 3 febbraio. Imputati nel processo sono 4 quattro 007 egiziani: ovvero, Usham Helmi, il generale Sabir Tariq e i colonnelli Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, accusati del reato di sequestro di persona pluriaggravato (mentre al solo Sharif sono contestati anche i reati di concorso in lesioni personali aggravate e di concorso in omicidio aggravato, ndr). Nel corso dell’audizione, Manenti ha ricostruito le fasi precedenti alla scoperta del corpo del ricercatore italiano. “Ci siamo trovati di fronte ad un muro di gomma da parte degli egiziani“, ha spiegato il testimone, precisando come nei giorni successivi alla scomparsa, in base a anche ad una serie di elementi, la “situazione portava ad un fermo non ufficiale, una pratica spesso usata in Egitto sia per i cittadini stranieri ma soprattutto per i connazionali”.
Manenti ha spiegato come il capo del Servizio di Intelligence Generale egiziano (GIS) già il 3 febbraio del 2016 comunicò al suo omologo italiano le ferite riscontrate alla “base del cranio” di Giulio Regeni. Un elemento che sarebbe stato accertato ufficialmente, in realtà, soltanto dieci giorni dopo dall’autopsia svolta in Italia. “Mi trovavo in albergo al Cairo. Il nostro capocentro al Cairo entrò nella stanza e mi disse che era stato trovato il corpo di Giulio. Chiamai immediatamente il mio omologo del Gis. Mi disse che avrebbe fatto accertamenti, mi richiamò dopo circa mezz’ora. Mi confermò che il corpo era di Giulio. Quando gli chiesi le cause della morte mi disse quella frase, ‘ci sono traumi, segni alla base del cranio’. Tra me e me, pensai ad un colpo ricevuto da un corpo contundente”. “Evidente che l’Egitto non è un Paese sicuro”, ha replicato la legale della famiglia Alessandra Ballerini, sottolineando come nel corso dell’udienza siano stati chiariti diversi punti: “L’ostruzionismo egiziano, il muro di gomma che ha reso evidente fin dal 28 gennaio 2016 che Giulio era nelle mani degli apparati e non si trattava di una sparizione volontaria. Una convinzione per i servizi segreti anche degli altri Stati”. Anche l’attuale numero uno dell’Aise, Giovanni Caravelli, ha ricordato la mancata collaborazione da parte egiziana: “Il 27 gennaio del 2016 contattai il mio omologo del Gis, al quale dissi della scomparsa di Giulio. Lui non sapeva nulla, ma mi assicurò che si sarebbe attivato. Il 2 febbraio, quando ancora non c’erano notizie sulla sorte del nostro connazionale, mi disse di avere attivato la National Security, che a sua volta aveva attivato un ‘team ad hoc’ sul caso. Noi facevamo pressioni sui nostri omologhi per far capire che avevamo bisogno di risposte e non di silenzio”, ha precisato Caravelli. Risposte però non ne arrivarono.
In seguito ad alcune domande poste dalla difesa, in relazione a quanto emerso la scorsa estate dopo un’inchiesta di Report, Caravelli ha invece negato che l’Aise fosse venuto a familiarità il 29 gennaio 2016 che Regeni fosse ancora vivo. Un supertestimone aveva raccontato a Report che mentre l’ambasciata si stava muovendo attraverso i suoi canali per rintracciare Regeni, si sarebbe aperto un altro canale parallelo attraverso una compagna, Zena Spinelli, che lavorava nel Paese con conoscenze nei servizi del Cairo e in quelli italiani. Secondo il racconto, Spinelli sarebbe stata contattata da un operativo dell’Aise e si sarebbe attivata contattando una figura molto vicina ai vertici governativi del Cairo, l’assistente diretto del ministro della Giustizia egiziano, Ayman Rashid. Questi le avrebbe inviato un messaggio dove diceva: “Non lo abbiamo (Giulio, ndr), ma è ancora vivo”. Di questo messaggio sarebbero stati informati gli stessi servizi italiani, secondo quanto emerse dall’inchiesta di Report.
Una versione che viene però disdetta in Aula da Caravelli: “Non conoscevo Zena Spinelli, è verosimile che avesse dei contatti, così come li aveva con altri italiani che frequentavano l’ambasciata. Se ho avuto notizia del messaggio inviato dall’assistente del ministro a Spinelli? No. Sono sincero, ho appreso della signora Spinelli dalla trasmissione Rai. Abbiamo fatto verifiche, ma non abbiamo avuto riscontri”, ha aggiunto Caravelli. E ancora: “Se uno dei miei avesse visto o intravisto Giulio dentro un ufficio di polizia egiziana, lei crede che quell’agente di polizia sarebbe andato via senza portarsi via Giulio Regeni? Assolutamente no (smentisco, ndr) che uno dei miei avesse visto in qualunque circostanza, da qualunque parte, Giulio Regeni vivo”, ha concluso Caravelli.