Il recruiting si fa per canali informali: del resto, si tratta di una professione cui non si arriva leggendo un annuncio. “E poi sono l’unico uomo qui da noi. E’ una specie di clan, in senso positivo, composto da sole donne” spiega il responsabile, Gregorio Baffigo, dieci anni da Eataly prima di passare all’azienda di famiglia. A Roma c’è una piccola realtà che da un secolo realizza protesi per chi ha perso uno o entrambi gli occhi. Si chiama Ocularistica italiana e ha una storia che risale al Novecento. Nei locali della Capitale, a partire da calchi della cavità oculare, le protesiste, seguite da medici, realizzano la sclera in resina, poi aggiungono l’iride, infine la dipingono con pigmenti naturali. Una professione particolare, ad alta specializzazione, a cavallo tra passato e presente. Un lavoro che non si lascia, a volte si tramanda: “L’anno scorso è andata in pensione una dipendente entrata giovanissima, quando aveva sedici anni, il prossimo smetteranno due persone che sono qui da quando ne avevano diciassette. Al momento, ci sono anche una madre e una figlia. Non è solo questione di stipendio: qui si viene soprattutto perché si sente di avere una missione”.
Senza dirlo in famiglia
Qualcuno non l’ha detto alla moglie, e chiede gentilmente di non chiamare a abitazione. Molti non ne hanno parlato ai colleghi e agli amici più stretti: le storie di chi ha perso un occhio, per incidente o malattia, sono tante. Un pudore che, probabilmente, deriva dal fatto che la condizione viene percepita immediatamente dal nostro sistema cognitivo: “Se in un bar entra una persona che ne è affetta, lo notiamo subito, anche senza bisogno di concentrare l’attenzione” sintetizza Baffigo. Per i pazienti, molto cambia dal punto di vista relazionale: “Si è portati a pensare che un monocolo (chi ha un occhio solo, ndr) non possa svolgere una normale attività professionale: invece non è così. Può giocare a calcio, in piscina, vivere un’esistenza completa e appagante” dice l’imprenditore.
L’obiettivo di una protesi è esclusivamente estetico, spiega Baffigo, ma per raggiungerlo è necessaria una qualità costruttiva assoluta. “Abbiamo realizzato una serie di sclere di diverse tonalità che creiamo preparandpo miscele differenti a partire da un unico materiale di base, il metacrilato di metile. Si tratta di una resina molto dura e stabile chimicamente, che cuoce in forni di polimerizzazione a novanta gradi e alla pressione di cinque o sei bar”. Il materiale, afferma Baffigo, è lo stesso di un dente finto: ma questo è solo l’inizio della storia. “Direi il 10%. La complessità dell’occhio fa sì che il risultato finale debba essere perfetto: per dare la sensazione di realtà dipingiamo le iridi in tre dimensioni, su piani differenti, con tecniche che si sono via via raffinate nel corso di decenni. Parliamo di artigianalità nuda e cruda che va a braccetto con l’innovazione, e di una ricerca che si concentra soprattutto sui pigmenti”. Il risultato? Invisibile, almeno per chi non è del settore. “Le faccio un esempio. Alle superiori facevo canottaggio: avevo un compagno che portava una nostra protesi, ma le dico la verità: non me ne sono mai accorto, l’ho scoperto solo in seguito. Anche lei sicuramente conosce qualcuno che indossa un dispositivo del genere, ma probabilmente non lo sa”. La protesi richiede una manutenzione minima, ma deve essere sostituita ogni tre anni, anche per adattare il colore della sclera al passare degli anni.
La storia di Moussa: dal Senegal all’Italia per curare una patologia rara
Le prime protesi realizzate a Roma erano in cristallo: la tecnica costruttiva venne appresa dal nonno di Baffigo, Paolo Modugno, negli anni Venti del secolo scorso. Reduce della Prima guerra mondiale, il combattente si accorse della massa di mutilati che il conflitto si era lasciato alle spalle. Unendo spirito imprenditoriale e una sorta di filantropia, decise, così, di tornare in Germania, dove era stato internato e aveva imparato il tedesco, per apprendere lo stato dell’arte. Da allora, l’azienda è rimasta familiare. Quindici persone in tutto, si lavora per passione, dice Baffigo, e, in qualche caso, anche per beneficenza. Come nel caso di Moussa, bambino senegalese nato con anoftalmia bilaterale: gli mancavano entrambi gli occhi, patologia che colpisce un neonato su trentamila. Prima del parto, il padre era tornato in Italia per lavorare: ma appena venuto a conoscenza della condizione del figlio ha cercato aiuto. L’appello è stato raccolto dall’Osservatorio malattie rare, associazione fondata oltre dieci anni fa da Ilaria Ciancaleoni Bartoli, che si occupa di sensibilizzare politica e case farmaceutiche sulle patologie meno diffuse.
Grazie alla rete costruita nel tempo, Ciancaleoni ha coinvolto l’Ambulatorio malattie rare dell’ospedale Bambin Gesù di Roma, dove il caso di Moussa è stato preso in carico dal direttore Andrea Bartuli. Il nosocomio romano si è occupato di istruire le pratiche per ovviare alla mancanza di assistenza sanitaria ed effettuare tutti gli accertamenti del caso: cure che in nessun modo la famiglia avrebbe potuto sostenere. Con l’aiuto costante dell’associazione Kim, piccolo e madre sono stati accolti e inseriti in uno dei programmi attivi, che comprendono assistenza pediatrica, aiuto logistico nella ricerca di una sistemazione, lezioni di italiano e persino l’apprendimento di un mestiere con corsi di taglio e cucito.
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di Antonio Piemontese www.wired.it 2023-08-03 04:40:00 ,