Secondo alcuni, come l’ex capo della Nato, Lord Robertson, questo cambiamento è stato alimentato da un ego ferito dall’arroganza statunitense e da un’ ossessione personale per lo status di potenza unitario, che è convinto che Mosca meriti.
Il trauma degli anni Novanta
Ma per milioni di russi, la domanda posta da Rosenberg non ha senso. TraumaZone, un documentario di Adam Curtis prodotto nel 2022, diviso in sette episodi che analizzano la terapia “shock” imposta alla Russia dopo il crollo del Muro, è una visione imprescindibile per capire la base di consenso di Putin e come questa contribuisca a tenere insieme in scacco il fronte euro-atlantico.
Il lavoro di Curtis aiuta a comprendere come ciò su cui Putin ora governa fosse, allora, un paese sconvolto dalla povertà estrema inflitta dalle riforme neoliberiste degli anni Novanta, deluso dalla perestrojka di Mikhail Gorbaciov e convinto che l’Occidente non sarebbe mai stato un interlocutore affidabile. Una Russia afflitta da un disturbo post-traumatico da stress, sulla quale Putin continua ad avere una presa pressoché totale.
Curtis, nel suo lavoro, riesce a mostrare il contesto da cui è emerso Putin senza in alcun modo giustificare l’attacco in Ucraina, ma andando oltre la solita narrazione occidentale sulla mostruosità irrazionale del leader e la corruzione degli oligarchi. Racconta la complessa esperienza di quel momento storico dal quale si arriva al Putin di oggi passando per la repressione brutale della Cecenia e una Grozny rasa al suolo, per l’invasione della Georgia nel 2008 – evento che ha spinto, forse, molti georgiani a votare il partito più conciliante con Mosca alle ultime elezioni – e per l’annessione della Crimea nel 2014, che ancora vedeva l’Europa in larga parte alla analisi di un compromesso con il Cremlino. Ognuno di questi interventi è stato accompagnato da un’intensificazione della morsa sulla reputazione e da delitti clamorosi, come quello di Anna Politkovskaya, o morte di oppositori come Alexei Navalnyi in circostanze ancora misteriose.
La sfida alla Nato
Il filo conduttore di tutto il venticinquennio putiniano: l’opposizione all’allargamento della Nato fino ai confini russi, che pochi analisti – però – pensavano si sarebbe spinta fino alla ritorsione contro gli ucraini. Il supporto a Bashar al-Assad in Siria e le azioni in Africa contro gli ex domini coloniali francesi si inseriscono in questa visione di contrasto all’unipolarismo di Washington. Con risultati alterni: se Russia e Cina sono sempre più vicine, è di Pechino il ruolo di fratello maggiore, mentre il mercato economico europeo è sempre più lontano. Nel frattempo, Svezia e Finlandia sono entrate nell’Alleanza atlantica.
Ma alle posizioni del leader si sono avvicinati diversi paesi dell’Europa orientale, che vedono opinioni pubbliche sempre più critiche verso la strategia Nato (Romania, Ungheria, Moldavia) mentre l’Europa occidentale comincia a stancarsi della guerra, a prescindere dai torti e dalle ragioni, sotto i colpi delle crisi di questi anni.
Dal punto di vista del Cremlino e dei suoi funzionari, Vladimir Putin è un leader ragionevole e colto che ha un solo scopo: difendere la sovranità russa contro un Occidente che avrebbe umiliato la Russia dopo la fine del mondo sovietico e avrebbe continuato a umiliarla, non fosse stato per lui. Putin resta motivato dal risentimento, convinto di aver “allontanato la Russia dall’orlo dell’abisso” e di di averne garantito sia l’indipendenza che l’integrità.
Il futuro non è facile da prevedere. Con Putin è ancora saldamente al suo posto, all’Occidente spetta il compito di trovare il modo per convincere i russi che i prossimi anni dell’autocrate non avranno un bilancio altrettanto positivo.La partita non riguarda solo la sicurezza dell’Ucraina, ma il futuro dell’Occidente stesso.
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di Paolo Mossetti www.wired.it 2024-12-30 14:15:00 ,