Il via libera ai referendum della Consulta apre di fatto una campagna elettorale su una delle questioni più divisive e contrastate
Con la decisione di ammettere i referendum sulla giustizia, la Corte costituzionale ha aperto di fatto una lunga campagna elettorale, da oggi al giorno delle consultazioni, sul tema più contrastato e divisivo all’interno della maggioranza che sostiene il governo. Con il rischio di rendere più accidentato del previsto il percorso delle riforme già in cantiere. A partire da quella dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura appena approdata in Parlamento, dopo un travagliato parto in Consiglio dei ministri. Naturalmente questo rischio non è scontato, né se ne può attribuire la responsabilità alla Corte, chiamata solo a stabilire se i quesiti e la cosiddetta «normativa di risulta» (cioè quello che resta dopo l’eventuale abrogazione delle singole norme sottoposte a referendum) fosse o meno in contrasto con la Costituzione e i suoi principi fondamentali. Il resto — il merito delle questioni e le eventuali ricadute sul piano politico — non è competenza dei quindici giudici che si sono pronunciati.
Lo è invece del Parlamento e dei partiti che lo abitano. Perché prima ancora che nelle piazze, è nelle aule legislative che dovrebbero impegnarsi per risolvere i problemi. Ma l’aria che tira e le prime reazioni alle scelte della Corte lasciano intuire altro. Gli slogan di partenza rischiano essi stessi di essere fuorvianti. Con i referendum sarà «il popolo sovrano a fare la riforma che il Parlamento non è riuscito a fare in trent’anni», esultano promotori e sostenitori. Ma negli ultimi trent’anni i rispettivi partiti sono stati rappresentati alla Camera e al Senato, e per lunghi anni anche al governo; e in ogni caso il «popolo sovrano» potrà solo abrogare singole leggi (o pezzi di legge), non disegnare le riforme che anche la cancellazione delle norme sottoposte a referendum richiederebbe o richiederà.
Ad esempio, l’abrogazione dell’incandidabilità o della decadenza automatica dalle cariche elettive per i politici condannati in via definitiva (o anche solo in primo grado per gli amministratori locali) può avere un senso, ma dovrebbe presupporre nuove regole sulla cosiddetta moralizzazione della vita pubblica, che non sono contemplate nel quesito referendario e spetterebbe al legislatore dettare. Non ai giudici né ad altri. Si ha però l’impressione che, dopo l’eventuale cancellazione di quella parte della legge Severino, non sia facile trovare un accordo nemmeno tra i partiti schierati per il «sì» all’abrogazione.
Stessa cosa per il referendum che limita la carcerazione preventiva per il rischio di reiterazione del reato alle accuse più gravi, legate al crimine organizzato o che contemplino l’uso della violenza o delle armi: restano esclusi i reati contro la pubblica amministrazione (dalla corruzione in giù) e altre situazioni che destano periodici allarmi sociali. La sola cancellazione non farà che limitare gli arresti, e non è affatto detto che tra le file degli stessi promotori che oggi esultano per il «via libera» concesso dalla Corte non si troverà chi domani, davanti a un reato commesso da un indagato o magari condannato in primo grado a piede libero, non griderà allo scandalo.
Ancora più complicato rischia di diventare il già rarefatto rapporto tra politica e magistratura. Perché è prevedibile che nell’imminente campagna referendaria le toghe si chiuderanno a riccio a sostegno del «no», senza trovare troppe sponde tra i partiti. Col risultato di isolarsi e acuire le tensioni con il potere esecutivo e legislativo. Il referendum più significativo, su questo versante, è quello che mira a una pressoché definitiva separazione delle funzioni tra giudici e pubblici ministeri, di fatto già quasi ottenuta con le barriere frapposte negli ultimi anni ai passaggi tra l’una e l’altra. Nelle intenzioni dei promotori la vittoria del «sì» è l’anticamera della separazione delle carriere, per la quale sarebbe però necessaria una modifica costituzionale su cui i partiti non sono affatto concordi.
Tra i commenti di ieri, il più gettonato era l’auspicio che la consultazione popolare funzioni da «stimolo» per il Parlamento. Se così fosse ci sarebbe di che rallegrarsi. Ma a parte la bizzarria della necessità di stimoli esterni per fare ciò che si ritiene necessario, è difficile immaginare che intorno a questioni sulle quali si dividono quasi ogni giorno le forze politiche marcino improvvisamente nella stessa direzione. È più facile organizzare comizi, che approvare riforme.
16 febbraio 2022 (modifica il 16 febbraio 2022 | 23:20)
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Giovanni Bianconi , 2022-02-16 22:20:41
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