di Lorenza Negri
Il rischio che la Sheridan sfornasse l’ennesimo indie pieno di cliché, citazionista al limite del plagio e pretenziosamente autoriale era enorme. Rose: A Love Story, in questo senso, non offre niente di veramente nuovo; è l’atmosfera a fare la differenza, la capacità della regista di riuscire a trasformare l’ambiente immerso nella penombra e appena illuminato dalle lampade alogene, spartano e ristretto ma non claustrofobico in un rifugio rassicurante, confortevole, riscaldato dall’amore. È in contrasto con l’ostile, inospitale foresta innevata e immersa nella tenebra, con la tensione e la paura che serpeggiano costantemente sotto l’intima ma forzata esistenza che Rose e Sam condividono. L’illusione alla quale entrambi vogliono credere – che l’amore possa trionfare su tutto, anche la malattia, la fame e l’istinto – ammanta questo malinconico e fatalista horror fino a quando, a spezzare il delicato equilibrio della coppia, non sopraggiungono due invasori: il primo, un giovanotto imbroglione (Nathan McMullen, Misfits) che interrompe la meticolosa routine di sopravvivenza di Sam fatta di caccia, semina e rifornimenti di carburante per il generatore elettrico reperiti in città. La seconda, una ragazzina in fuga di nome Amber che stravolge l’equilibrio intimo e interno della coppia donandole l’illusione che una famiglia e la normalità siano possibili.
Questo horror britannico romantico nella prima parte è una love story e un pandemic movie che nella seconda metà cambia rotta: la quiete cristallizzata, irreale, immobile come la candida e silenziosa foresta che circonda gli amanti si spezza quando Rose, spossata dalla malattia e dalla solitudine inonda di affetto la nuova arrivata, macroscopica falla nel rigido regime di Sam. La storia culmina in un climax repentino nel quale si scatena la furia di una creatura ferale e impossibile da domare. Matt Stokoe (Misfits) – anche sceneggiatore e coproduttore del film – e Sophie Rundle (Peaky Blinders), sono strumentali alla riuscita del film. Entrambi hanno il physique du rôle perfetto: lui grosso e barbuto, semplice e leale, iperprotettivo e aggressivo; lei esile e angelica, rassegnata e gentile, innocua fino a quando non perde la ragione. Vera coppia nella realtà, convincono il pubblico come, forse, l’amore possa davvero conquistare tutto finché… non lo fa. Il finale è un’esplosione di furia animalesca e trionfo degli istinti: l’orrore soprannaturale si scatena solo, brevemente, alla fine, ma vale tutta la pena dell’attesa.
L’ultima edizione del Trieste Science+Fiction Festival ha incluso una buona quota di donne registe. Non c’è bisogno di ricordare quanto alle spettatrici femminili piacciano fantascienza e horror, ma è bene sottolineare che sono tante, tra queste, che da semplici estimatrici si trasformano in filmmaker. Ammettiamo di non avere trovato entusiasmanti il pandemico The Pink Cloud della brasiliana Iuli Gerbase o l’ennesima parabola sul diverso e la discriminazione applicata alle creature soprannaturali (in questo caso, giovani streghe) come il Witch Hunt di Elle Callahan. Jennifer Sheridan, qui alla sua opera prima, potrebbe diventare la prossima Jennifer Lynch (figlia d’arte autrice del insufficiente Boxing Helena) o la prossima Jennifer Kent (regista del sensazionale The Babadook): noi confidiamo segua le orme della seconda.
Source link
www.wired.it
2021-11-06 06:00:00