Saint Omer è un film diretto da Alice Diop e ispirato ad un caso di cronaca realmente accaduto in Francia.
La regista scandaglia uno dei mille volti della maternità, facendo emergere i fatti della vicenda narrata attraverso le fasi processuali.
Porta sul grande schermo una tematica molto delicata e personale, raccontando di una donna e della sua difficoltà nell’accettare la maternità, ma soprattutto della sua perdita di contatto con la realtà.
Cosa resta di una madre
Rama, una scrittrice francese, decide di seguire il processo di Laurence Coly, un’immigrata senegalese che ha lasciato la figlia di quindici mesi sulla spiaggia per essere portata via dalla risacca.
Rama è incinta e, ispirata da questa condizione, decide di raccontare la storia di Laurence come una rivisitazione moderna del mito di Medea. Mentre l’udienza prosegue, durando diversi giorni, la scrittrice diventa sempre più dubbiosa e ansiosa per la propria gravidanza.
Il rapporto materno che Laurence Coly descrive con sua figlia, fa riaffiorare in Rama i ricordi del legame che aveva con sua madre quando era piccola.
Sono ricordi amari, di una madre assente, aggressiva e poco incline ad atteggiamenti affettuosi. Comportamenti di una donna che, avendo sofferto molto, non è riuscita a trovare la bellezza della vita e a riscattarsi dal dolore.
Rama ha paura di diventare anaffettiva come sua madre e il caso di Coly la riempie di paure e perplessità.
La regia è scarna e si focalizza, in maniera quasi documentaristica, sulle deposizioni dell’imputata e sulle domande che le vengono rivolte dal pubblico ministero. In questo contesto essenziale si staglia la figura granitica di Laurence Coly, che rapisce il pubblico con uno sguardo tagliente, tanto eloquente da riuscire a trasmettere il disagio interiore e la sofferenza.
Laurence è immobile, salda sulla sua postazione in tribunale ma soprattutto inerte di fronte al suo tormento.
Il film, infatti, nasce dalla volontà della regista di restituire la superficiale imperturbabilità di questa madre omicida, di scavare a fondo sulle sue emozioni e di portare alla luce la sua verità, scegliendo accuratamente le parole attraverso l’analisi attenta dei verbali.
“Nel giugno del 2016 ho assistito al processo di una donna senegalese che aveva ucciso la figlioletta abbandonandola su una spiaggia in Francia – racconta la regista –. Ho pensato che la donna avesse voluto offrire la figlia al mare, una madre ben più potente di quanto non potesse esserlo lei stessa. Ho voluto subito capire le ragioni oscure che mi facevano interessare a questa donna. Il suo processo mi ha colpito moltissimo. E mi ha anche colpito che vi erano quasi tutte donne: giornaliste, avvocatesse e così via. Ho visto nella sala quanto queste donne si stessero facendo trasportare dalle emozioni. Ognuna aveva la propria bolla di solitudine che viveva a modo suo”.
“Ho restituito mia figlia al mare” dice Laurence Coly ai giudici, senza mai dire di averla lasciata annegare. Sta proprio in questa frase la genesi dell’infanticidio.
Il suo senso di solitudine è palpabile, la spinge a nascondere la gravidanza e la bambina, fino al gesto estremo e disperato: uccidere sua figlia per salvarla. Salvarla da un mondo ingiusto, capace soltanto di far soffrire le persone e di annichilire i loro sogni più brillanti.
Perché Medea?
Nel sondare l’indicibile mistero dell’essere madre, Diop mette in parallelo questa vicenda con Medea di Pasolini, di cui mostra una scena nel film.
La Medea di Pasolini, come Laurence, è una donna straniera che non uccide i figli per vendetta o rabbia, dal momento che in lei le passioni sono quasi assenti. Li uccide perché sono simbolo di un amore insincero, frutto della profanazione del suo mondo sacro, della sua individualità corrotta per sempre (“Tutto è santo”).
Cellule chimeriche
L’arringa finale dell’avvocata che difende Laurence Coly è struggente: la sua preghiera è rivolta ai giudici, li invita a non fermarsi di fronte al mostruoso atto commesso dalla madre ma ad andare oltre, chiedendosi perché la donna abbia commesso una tale brutalità.
Laurence è una persona bisognosa di aiuto e di cure mediche, non si può astrarre il suo gesto dalla sua instabilità mentale ed emotiva.
Le allucinazioni di cui parla, credendole vere, sono una prova evidente del suo squilibrio. Ha perso ormai il contatto con la realtà a causa della sua frustrazione personale, per non essere diventata la donna di successo che aveva sempre immaginato di diventare e che la sua famiglia credeva sarebbe diventata.
Poi d’improvviso la gravidanza, inaspettata e nel momento più sbagliata della sua vita, la mette di fronte al suo nuovo ruolo di madre. Laurence ha cercato di combattere e di andare avanti, ma non ce l’ha fatta perché nessuno l’ha aiutata, nessuno l’ha capita.
Nella parte finale della difesa, l’avvocata si rifà alla scienza per umanizzare la sua assistita, raccontando alla giuria e alla corte che le cellulare e il dna di ogni madre, durante la gravidanza, migrano verso il feto e viceversa. Perciò una madre e il suo bambino sono intrecciati inistrecabilmente da quelle che la biologia chiama cellule chimeriche.
Poi afferma: “Come la chimera, il mostro mitologico, una creatura ibrida composta da parti di animali diversi: la testa di leone, il corpo di una capra e una coda da serpente. Quindi noi donne siamo tutte chimere. Portiamo dentro di noi le tracce delle nostre madri e delle nostre figlie, che a loro volta porteranno le nostre. È una catena infinita. In un certo senso, noi donne, siamo tutte dei mostri. Ma siamo mostri terribilmente umani”.
Laurence scoppia in un pianto sincopato e lunghissimo, per la prima volta è stata mossa da queste parole, che ha sentito così vicine a lei.
La staticità dei lunghi piani sequenza offre allo spettatore uno spazio di riflessione. Non c’è una verità assoluta, ma siamo noi a decidere se assolvere o condannare Laurence, rimbalzando le certezze e attraversando le emozioni.
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di Veronica Cirigliano
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2023-03-14 12:56:11 ,