Ti hanno mai chiesto se avevi intenzione di avere in programma un figlio durante un colloquio di lavoro? Se hai risposto sì, sei una donna. Se hai risposto no, uomo. Perché in Italia è pratica nazionale, anche se illegale, informarsi sul futuro delle donne, sia che vogliano o non vogliano diventare madri.
Ha fatto scalpore il caso della pallavolista Lara Lugli, citata per danni dal Volley Pordenone, perché avrebbe taciuto la possibilità di diventare madre, e poi una volta incinta, avrebbe danneggiato la società con la sua assenza.
Il caso Lugli è certo particolare, perché riguarda il mondo dello sport non professionistico, un ambito che prevede le cosiddette clausole di gravidanza, una sorta di scrittura privata tra atleta e società. Le sportive possono essere licenziate in tronco qualora incinte, un malcostume che riguarda anche malattie inaspettate.
«Nello sport si consuma la più grande discriminazione per le donne. Le atlete non possono accedere alle leggi sulla maternità e a decidere è il datore di lavoro», racconta Luisa Rizzitelli, presidente dell’Associazione Assist – Donne nello sport, ex atleta che per 15 anni ha firmato la clausola anti-maternità. «Con la legge 91/1981 che regolamenta il lavoro sportivo, non si è stabilito quali fossero le discipline professionistiche, spetta alle federazioni e al Coni farlo, con il risultato che solo calcio, basket, ciclismo su strada e golf lo sono, e solo per i maschi». Si parla di migliaia di atlete considerate dall’Inps dilettanti, ma che in pratica non lo sono, visto che hanno fatto dello sport la loro vita. «Abbiamo rilasciato interviste a El Pais, al Guardian, i giornalisti rimangono sbigottiti. La giornalista del New York Times mi ha chiamato più volte per avere conferma dei dettagli, le è sembrato tutto assurdo», aggiunge Rizzitelli che ha promosso con Assist la campagna social #IOLOSO.
Le eccezioni, assai rare, esistono. Mesi fa il Cesena Femminile, squadra di calcio che milita in serie B, ha rinnovato il contratto ad Alice Pignagnoli, portiera del club. Una decisione presa in libertà della società sportiva, dato che la calciatrice (non professionista) non rientra nelle tutele di gravidanza del sindacato FifPro.
Ma il caso Lugli non è isolato. Un precedente altrettanto noto riguardò Adriana Moises Pinto, cestista di punta del Faenza, che a metà stagione annunciò la maternità. Era il 2005 e la squadra era favorita per il titolo, Pinto fu messa alla porta. O la schiacciatrice Cristina Pirv, che dopo 13 anni in serie A ai massimi livelli, ha rotto i rapporti con il Novara una volta incinta. Di esempi ce ne sono decine, anche se la maggior parte si risolve senza clamori e con la fine della professione: «Lugli ha anche denunciato perché a fine carriera, ma sono pochissime quelle che lo fanno», spiega Rizzitelli. E non mancano episodi all’estero: Nike nel 2019 ha tagliato del 70 per cento il contratto della velocista Allyson Felix, vincitrice di sei ori olimpici, al rientro dalla maternità.
Eppure tra le voci di condanna se ne alternano altrettante, per lo più maschili, di sostegno alla società sportiva, e quindi a quella mentalità che vuole una donna che scelga tra lavoro e gravidanza. «Se vuoi un figlio non firmi un contratto», «Sei una professionista sportiva, il minimo è avvisare», «Se voleva avere figli poteva rimanere a casa e non farsi assumere», si legge sui social. Come se la gravidanza fosse un atto di furbizia nei confronti dei propri datori di lavoro. Un’idea questa condivisa anche da alcune donne.
«Nella mia città, c’è una catena di negozi gestiti da un’unica famiglia, che da decenni al momento dell’assunzione fa firmare un documento concorde a non rimanere incinta», racconta Biancarosa, che aggiunge di non essere sconvolta, perché molte donne «sono sempre incinte, con notevoli disagi del datore di lavoro, è giusto sapere prima come andranno le cose». La gravidanza vista come un qualsiasi punto di un ordine del giorno, da mettere in calendario con il proprio datore di lavoro.
TUTTI SANNO NESSUNO NE PARLA
«La prima cosa che mi chiedevano ai colloqui era la mia intenzione di rimanere incinta o meno, anche per fare le pulizie, non dirigente d’azienda». «In passato un titolare mi ha anche chiesto se stessimo prendendo “precauzioni” con il mio compagno». «Dopo il primo figlio, al rientro sono stata messa in cassa integrazione per un anno rinnovato di settimana in settimana. Al secondo sono stata sbattuta direttamente a fare fotocopie». «Dopo il diploma ho cominciato a cercare lavoro, le prime domande che mi facevano erano se ero fidanzata e se avevo intenzione di avere figli: era il 1979, non è cambiato niente».
La vicenda della pallavolista ha tirato fuori gli sfoghi di molte. Purtroppo a leggerle una di seguito l’altra, con le varie sfumature che ogni storia porta con sé, si intravede un unico filo rosso: “tutti sanno, ma nessuno ne parla”. Già, perché se le donne stanno zitte per paura di ripercussioni o abbandonano per mancanza di tutele, i numeri sono lì: il tasso di occupazione delle donne in Italia è di 18 punti percentuali più basso di quello degli uomini (al sud è pari al 33,2% degli occupati), il lavoro part-time riguarda il 73,2% delle donne ed è involontario nel 60,4% dei casi.
«Non mi stupisce più nulla: quando mia figlia faceva le elementari più di una mamma ha criticato una maestra che era rimasta incinta – scrive Fabrizia – aggiungendo che le maestre dovrebbero garantire almeno i cinque anni». «Prima di firmare un contratto di lavoro è stato chiesto di impegnarmi a non rimanere incinta – racconta Chiara – feci buon viso a cattivo gioco, invece a una collega era stato fatto firmare un foglio di dimissioni in bianco, che il datore di lavoro teneva pronto». I ricatti si manifestano negli anni di fertilità delle donne, quelli in cui si entra nel mondo del lavoro, prima, e si dovrebbe fare carriera, poi. In molte aziende, ad esempio, non è possibile avere una promozione, se si è in part-time.
Madalina ha 28 anni, vive in Val d’Aosta, dove dice si conoscono tutti. Lavora, anzi lavorava nella ristorazione, ma vista la situazione, racconta all’Espresso, vorrebbe cambiare: «Tutti chiedono come gestisco mio figlio di tre anni, ma se ci sono sempre riuscita lavorando nella ristorazione, che ha orari particolari, perché non dovrei? Sono scuse per non assumere una donna con un figlio piccolo». In attesa di qualcosa Madalina pensa alla sua formazione: «Mi sono iscritta ai corsi che la regione offre: informatica e per fare l’Oss, ma non è quello che voglio fare. In alternative farò pulizie, anche non in regola».
Su questi temi non partono quasi mai vertenze o segnalazioni al sindacato, semplicemente si tenta al colloquio successivo: «In generale, sarebbe meglio evitarle per non creare problemi futuri alle lavoratrici, che potrebbero subire mobbing o non vedersi rinnovati i contratti. Questo però quando le aziende collaborano, alcune non aprono neanche i dialoghi con noi. E le donne difficilmente sporgono denuncia, il sommerso in questo ambito è enorme, impossibile da calcolare», spiega Sabrina Bordone, Cgil Asti.
Di recente il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha ricordato l’importanza del “Codice delle pari opportunità” dove è scritto il divieto di qualsiasi “riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive” (art. 27). Ci sarà un maggior controllo anche grazie a «piattaforme anonime per denunciare le aziende che vìolano quell’articolo che proibisce di fare domande sulla vita personale delle donne (ma anche degli uomini): perché lì si decide se assumere un uomo o una donna», ha dichiarato il ministro.
E I PAPA’?
In questi discorsi dei papà, o possibili tali, neanche l’ombra, nessuno li tira in ballo, come se non esistessero. Certo non si può delegare loro la gravidanza, ma si potrebbero far passi in avanti nella gestione familiare. Perché a sentire tutte queste storie sembra che il diritto alla maternità, sancito dall’art. 31 della Costituzione, non sia mai stato scritto.
«All’età di 29 anni, fresca di matrimonio ho fatto dieci colloqui, cercavo lavoro a Bolzano in ambito finanziario – ricorda Ilaria all’Espresso – Anche con un ottimo curriculum la domanda sulla gravidanza arrivava sempre». “Il posto è tuo ma se investo, mi aspetto che per i prossimi sei anni non te ne vai, ci aspettiamo un ritorno”, si è sentita dire una volta. L’unica volta in cui non le hanno fatto la domanda è stata assunta: «Ho trentasei anni, due figli. Lavoro ancora nella stessa azienda, ma solo perché ha decine di dipendenti e un welfare rigido, la mia essenza non è pesata». Dice Ilaria aggiungendo anche che il marito essendo partita iva non ha potuto usufruire del congedo parentale, motivo per cui è rientrata a lavoro in part-time.
Gravidanza vuol dire allontanamento dal posto di lavoro, per questo un discorso sul congedo per i padri è fondamentale. In Italia è solo di dieci giorni, da usare entro i cinque mesi di nascita. E pensare che in Svezia è stato introdotto nel 1975, al momento è di 12 mesi, come in Danimarca, in Finlandia addirittura 14. Mesi che non possono essere ceduti alla madre. Una proposta firmata dalla deputata del Pd Giuditta Pini prevede il congedo paterno obbligatorio per quattro mesi: «La legge è ferma da due anni, è tempo di portarla in commissione e approvarla. Diciamolo chiaramente: i genitori hanno uguali diritti e doveri nei confronti dei figli e delle figlie».