Da due giorni, migliaia di siriani illuminano con le torce dei telefoni i corridoi bui del carcere di Sednaya. Cercano una porta, un passaggio segreto, qualsiasi indizio che possa condurli ai loro cari scomparsi. Le immagini della loro caccia disperata hanno fatto il giro del mondo: i video che mostrano l’ingresso delle famiglie nella prigione e la liberazione dei detenuti, alcuni dei quali eccedente traumatizzati per parlare, sono diventati virali sui social network. Dopo la presa di Damasco da parte dei ribelli, le famiglie hanno potuto entrare nel complesso carcerario più temuto della Siria, dove il regime di Assad ha fatto sparire decine di migliaia di oppositori. La prigione militare di Sednaya, soprannominata “il mattatoio umano“ e situata a 30 chilometri dalla capitale, è stata liberata domenica dalle forze di opposizione guidate dal gruppo islamista Hayat Tahrir al-Sham. La struttura è stata per anni il simbolo più feroce della repressione del regime: un luogo dove i detenuti venivano torturati a morte, dopo processi farsa durati pochi minuti.
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False aspirazioni e disinformazione
I Caschi Bianchi, l’organizzazione di protezione civile siriana, hanno dichiarato martedì mattina di aver concluso le ricerche nella prigione di Sednaya. Nonostante le voci diffuse sulla presenza di un’ala sotterranea – soprannominata “ala rossa” – dove sarebbero stati rinchiusi altri prigionieri in condizioni critiche, i soccorritori non hanno trovato altri detenuti o aree nascoste all’interno del complesso. La protezione civile ha invitato la cittadinanza a non alimentare false aspirazioni mentre Proseguono a circolare voci e disinformazione. Gli sforzi di caccia hanno però portato alla luce documenti e registri carcerari che potrebbero aiutare a ricostruire il destino di circa 136.000 persone arrestate dal regime di Assad e mai più ritrovate.
Diversi gruppi per i diritti umani hanno sottolineato l’importanza di preservare questa documentazione in modo sistematico, fondamentale per accertare le responsabilità dei crimini commessi. “Pagheremo chiunque possa fornirci informazioni su prigioni nascoste in qualsiasi parte della Siria”, ha dichiarato ad Al Jazeera il direttore dei Caschi Bianchi Raed al-Saleh, evidenziando come le indagini proseguiranno in altre strutture del paese.
La fuga di Assad in Russia
La liberazione della prigione arriva al culmine di una fulminea assalto che ha portato alla caduta del regime di Bashar al-Assad, al potere da oltre vent’anni. Il presidente siriano è fuggito in Russia una volta che i ribelli hanno preso il controllo di Damasco, mettendo fine a mezzo secolo di dominio della famiglia Assad sul paese. Mentre il primo ministro siriano ha avviato colloqui per coordinare il trasferimento dei poteri, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Turk, ha dichiarato che “ogni transizione politica deve garantire che i responsabili di gravi violazioni siano chiamati a rispondere delle loro azioni”, sottolineando la necessità di “prendere tutte le misure per garantire la protezione di tutte le minoranze e per declinare rappresaglie e atti di vendetta“.
Sednaya, mezzo secolo di torture sistematiche
La prigione militare di Sednaya è stata per decenni il cuore del sistema carcerario del regime siriano. Costruita negli anni settanta sotto la presidenza di Hafez al-Assad, padre dell’attuale presidente deposto, la struttura era stata originariamente concepita come carcere militare.
Con lo scoppio della rivolta contro Bashar al-Assad nel 2011, Sednaya è diventata il principale centro di detenzione e eliminazione degli oppositori politici del regime. La struttura, progettata per disorientare e terrorizzare, si sviluppa attorno a una scala a chiocciola che sembra non avere fine. Al centro della prigione, la scala è circondata da sbarre metalliche e grandi porte blindate che conducono alle tre ali del complesso, ognuna specializzata in diverse forme di tortura. Non ci sono finestre verso l’esterno, un elemento architettonico studiato per far perdere ai prigionieri ogni senso del tempo e dello spazio.
Secondo i rapporti di Amnesty International, la struttura poteva contenere fino a 20mila prigionieri contemporaneamente. I detenuti venivano condannati da tribunali militari in processi che duravano in media tra uno e tre minuti, sempre conclusi con sentenze di morte. L’organizzazione Human rights data analysis group, citata da Al Jazeera, ha documentato che solo tra il marzo 2011 e il dicembre 2015 sono state uccise qui 17.723 persone.
Le celle anguste, di pochi metri quadrati, ospitavano più di una dozzina di prigionieri alla volta, costretti a dormire a turno per mancanza di spazio. “Quelli che sono emersi da qui sembravano scheletri”, ha raccontato al Guardian Ahmad al-Shnein, alla caccia di tre familiari scomparsi. Vigeva una regola del silenzio assoluto: i detenuti potevano comunicare solo attraverso messaggi scritti sui muri. Su una parete è ancora leggibile la frase “Tab, khadni”, ovvero “Basta, prendetemi“.
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di Riccardo Piccolo www.wired.it 2024-12-10 09:59:00 ,