Lo spegnimento di internet voluto dal governo kazako per placare le proteste che erano in corso nel paese ha causato un brusco crollo del prezzo dei bitcoin, lo scorso venerdì. La più conosciuta criptovaluta al mondo, ideata nel 2009 da Satoshi Nakamoto, ha perso fino all’otto % del suo valore e ha trascinato con sé le altre. La corrispondenza temporale tra i due eventi c’è – il blackout di internet e il calo del bitcoin – ma non tutti sono certi che i fatti siano strettamente collegati. «Le criptovalute sono molto volatili e il loro andamento segue regole e cicli specifici. Probabilmente la situazione in Kazakistan ha accentuato un momento di decrescita che era già in atto» spiega Alessandro Quarchioni, consulente finanziario, esperto di trading.
Nello stato del presidente Tokaev, lo scorso 5 gennaio, sono scoppiate violente manifestazioni per l’aumento del prezzo del gas, che hanno portato alle dimissioni dell’esecutivo e causato decine di decessi, migliaia di feriti e arresti tra i manifestanti. Tra le misure prese dal governo per ristabilire l’ordine, prima dell’arrivo dei militari del Csto, l’Organizzazione del trattato per la sicurezza collettiva composta da sei ex stati sovietici tra cui la Russia, c’è stato il blocco di internet e dei social network, per impedire agli oppositori di comunicare. «Una banda di terroristi» secondo Tokaev. Migliaia di persone che sono scese nelle piazze, soprattutto giovani, delusi dalla politica del presidente che non ha mai avviato il processo di riforme che aveva promesso nel 2019, quando ha preso il posto di Nursultan Nazarbaev che ha guidato il Kazakistan per i 30 anni precedenti.
Il blackout di internet ha causato il rallentamento della potenza di calcolo dei computer che collegati in rete eseguono complesse operazioni matematiche e costituiscono le mining farms, enormi magazzini o grandi centri di elaborazione dati dedicati alla creazione di criptovalute. Un processo di produzione di moneta digitale (estrazione, infatti è conosciuto come mining) che si basa sulla blockchain, un libro mastro digitale amministrato collettivamente, una rete in cui ogni nodo è un computer che risolve difficili equazioni, al fine di completare il blocco di dati, e prendere parte alla catena. I bitcoin e le altre criptovalute sono la ricompensa che viene data a chi chiude il blocco. La blockchain, quindi, è come un registro pieno di informazioni, tutte quelle che precedono lo stato attuale, che non possono essere cancellate, contraffatte o modificate successivamente. Per questo costituisce una concatenazione di eventi unica e irripetibile e permette di certificare la veridicità dei processi. «Siamo soltanto agli inizi di una vera rivoluzione tecnologica e finanziaria, – dice Quarchioni – capace di ravvivare anche l’occupazione. Ad esempio, anche i contratti di compravendita o di lavoro potrebbero essere effettuati con la blockchain, perché registra tutte le operazioni».
Per questa capacità di essere un libro mastro ricco di dati e per la complessità delle operazioni che i computer devono risolvere senza sosta, i dispositivi utilizzati per l’estrazione di criptovalute, milioni e milioni di computer connessi e sfruttati alla massima potenza, che devono essere anche raffreddati perché si surriscaldano, consumano un’enorme quantità di energia.
Secondo l’indice Cambridge Bitcoin Electricity Consumption la produzione di monete digitali, ogni anno, richiede più elettricità di quanta ne necessitino la Finlandia o il Belgio. Per estrarre un solo bitcoin c’è bisogno di più corrente di quella utilizzata da una famiglia media statunitense in due anni. E, a peggiorare la situazione, si aggiunge anche l’impatto sull’ambiente. La maggior parte dell’attività di mining avviene in Stati che sono ancora fortemente dipendenti dal carbone per la produzione di energia.
Come la Cina che, nonostante abbia vietato più volte l’estrazione di bitcoin, ospita ancora circa il 20 % della produzione totale. O l’Iran che, anche, ha proibito la creazione di valute digitali sul proprio territorio, dopo che ripetuti e improvvisi blackout hanno colpito più città in tutto il paese. Per il presidente Hassan Rouhani il mining stava consumando più di 2 gigawatt dalla rete ogni giorno. O il Kazakhstan dove, secondo l’Università di Cambridge, oggi c’è il 22 % degli estrattori di criptovalute del mondo, molti sono quelli che si sono trasferiti dalla Cina dopo il divieto, attratti dal basso costo dell’elettricità prodotta per il 70 % dal carbone, con impianti vecchi e poco efficienti. Lo scorso novembre il ministro dell’energia ha dichiarato che la domanda di elettricità del paese era aumentata dell’8 % dall’inizio del 2021. Ad Almaty il mining è raddoppiato da maggio a metà novembre. Anche lo stato dell’Asia centrale è stato colpito da numerosi blackout, e l’aumento dei prezzi dell’energia, la scintilla che ha fatto scoppiare le proteste degli scorsi giorni, è legato anche al fatto che grandi quantità vengono utilizzate per il cryptomining. Il Kazakistan è il secondo al mondo per l’estrazione di bitcoin, dopo gli Stati Uniti e prima della Russia. Il governo ha dichiarato che inasprirà le misure contro le attività di produzione di valuta digitale non autorizzate e imporrà una tassa a tutte quelle che hanno sede legale in Kazakistan.
Da qualche giorno si è aggiunto anche il Kosovo ai paesi che vietano l’estrazione di criptomonete all’interno dei propri confini. Negli ultimi anni la sua capacità di produrre elettricità a buon mercato, attraverso le centrali di carbone, aveva attirato molti miners. Ma il grande consumo di energia che è seguito ha reso quella a disposizione insufficiente per il sostentamento del paese e costretto il governo a importare gas dagli stati vicini, per supplire alle frequenti interruzioni di corrente. Più del 40% dell’energia del Kosovo oggi viene dall’estero. Per uscire dalla crisi energetica il paese ha imposto tagli ai consumi delle imprese e lo stop alla produzione di bitcoin.
Vorrebbero imporre limitazioni all’estrazione di criptovalute anche la Svezia e la Norvegia che hanno chiesto all’Unione europea di prendere posizione e provvedimenti perché preoccupate per il massiccio uso di energie rinnovabili per il mining a scapito dell’industria tradizionale.
In risposta all’aumento dei divieti e per arginare la crisi climatica, i cryptominers si stanno organizzando per utilizzare meno energia, cercando alternative al sistema “proof of work” attraverso cui la blockchain aggrega e certifica le informazioni, e per promuovere l’utilizzo di fonti di energia rinnovabili, al posto del carbone. Più di 200 enti che operano nel settore delle valute digitali hanno dato vita al Crypto Climate Accord, un accordo che si ispira a quello sul clima di Parigi, secondo il quale i firmatari si impegnano a raggiungere zero emissioni dal consumo di elettricità associato alle operazioni che conducono, entro il 2030. «Si tratta di una tecnologia giovane fatta da persone giovani, il rispetto per l’ambiente è fondamentale. Sicuramente i prossimi passi verranno mossi in questa direzione, si tratta di un processo d’evoluzione» conclude Quarchioni.
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di Chiara Sgreccia
espresso.repubblica.it
2022-01-18 09:32:00 ,