La vita, lo sport. Le diseguaglianze, la competizione. La caduta dell’impero americano nel calcio femminile. E la doppia S: Sex and Soccer. Siete per la parità salariale e nel calcio vincete l’oro. Tutti vi applaudono, magari a qualcuno siete antipatiche, ma siete champions, le migliori al mondo, e vi si consente il diritto di manifestare le vostre idee. Se però perdete vi verrà rimproverato il vostro impegno, anzi peggio, sembrerà che l’ideale per cui lottate è un po’ meno giusto. Non siete più in cima, dunque non potete più permettervi di dire che le donne soffrono di una discriminazione di genere in fatto di stipendi. Anche se è vero. Ma nella guerra dei sessi la vostra accusa non avrà la stessa forza di prima. Lo sport è un tamburo pazzesco, ma dovete essere sul gradino più alto, altrimenti non siete credibili.
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Anche i diritti hanno bisogno di glamour e di eccellenza. Il pugno nero di Tommie Smith che nel ‘68 a Città del Messico sfondò il cielo in mondovisione era quello di un atleta che aveva appena vinto i 200 metri con il record del mondo di 19”83 (primo uomo sotto i 20 secondi). Tanto che John Carlos, medaglia di bronzo, forse per dare più valore alla sua protesta, spesso ripete che il successo gli sfuggì per un soffio. E Smith gli ricorda: «Sei arrivato terzo, non secondo».
Per la prima volta nella storia dei Mondiali l’America del calcio femminile non ha raggiunto i quarti. Disfatta per una squadra che finora aveva sempre dominato: quattro titoli mondiali su otto edizioni, senza mai scendere sotto il terzo posto. E mettiamoci anche quattro ori olimpici. Un Dream Team del pallone, arrogante nella sua strapotenza: dodici anni senza perdere. In Francia nel 2019 mai una sconfitta, un pareggio, né un supplementare, sempre almeno 2 gol a partita. L’unica nazionale capace di rompere l’indifferenza che circondava il calcio femminile e fare meglio dei colleghi maschi, più asini. La formazione più matura, il gruppo più consapevole del proprio talento e della propria esperienza. Con più di un pizzico di presunzione. Allenata da una donna, Jill Ellis, la prima ad aggiudicarsi come il ct azzurro Vittorio Pozzo due titoli mondiali di fila. Un gruppo di ragazze vincenti che usava il calcio per fare gol alla discriminazione, tanto che non veniva accolta da cori sportivi ma da quello «Equal pay». Una fonte d’ispirazione per chi ancora cercava di risalire la corrente dei pregiudizi. Con una allenatrice sposata con una donna e con una capitana, Megan Rapinoe, che con la sua compagna, Sue Bird, stella del basket professionistico femminile (Wnba) formava la prima coppia apertamente omosessuale a comparire sulla copertina di varie riviste.
Una causa più che una squadra che chiedeva rispetto, parità salariale, sociale, sessuale. E portava anche la federazione americana in tribunale chiedendo 66 milioni di dollari di compensazione. In più la giocatrice-simbolo, proprio Rapinoe, allora Pantera Rosa, non cantava l’inno e non si metteva la mano sul cuore. Chiara nella sua dichiarazione: «Forse l’America è grande per alcune persone in questo momento, ma non lo è per un numero sufficiente di americani in tutto il mondo». Un tiè per nulla sussurrato al presidente Trump e al suo slogan Make America Great Again.
Stavolta però l’America non è stata fenomenale. In questi Mondiali down-under è uscita ai rigori contro la Svezia. Era una nazionale rinnovata, con solo tre giocatrici superstiti del 2019. E chi ha sbagliato il penalty? La vecchia Megan (è il primo che fallisce) che ora ha i capelli azzurri. Coach Ellis non c’è più, è stata sostituita da un uomo, Vlatko Andonoski, che non verrà riconfermato. Sono uscite prematuramente anche altre big: Brasile, Canada, Germania, ma la caduta delle superstar americane è quella che ha fatto più rumore. Da Trump in giù (o in su) non aspettavano altro per scatenarsi. Commenti tecnici? Macché. Tutti entusiasti: ben vi sta, giusta punizione, così imparate a parlare troppo, a essere anti-americane, a polarizzare l’attenzione su questioni politiche e sociali. E figurarsi se l’ex presidente perdeva l’occasione di dire che «questo capita perché la nostra grande nazionale sta andando al diavolo sotto quell’imbroglione di Joe Biden». In sintesi: non impicciatevi di altro e soprattutto pensate a vincere più che a esprimervi.
Se tu sportivo vuoi darmi una lezione di vita devi prima dimostrami la tua bravura, altrimenti sei fasullo. Sei contro la fame del mondo? Metti dentro la palla e ne riparliamo, altrimenti zitto e gioca, senza darti arie. Proprio quello che è capitato a Marcus Rashford, calciatore della nazionale inglese, agli Europei 2020 vinti dall’Italia di Mancini. Rashford è tra quelli che nella finale hanno sbagliato il rigore. A Copson street nel quartiere di Withington, sud di Manchester, dove è cresciuto, hanno imbrattato di parolacce il suo murale insultando anche Saka e Sancho, due compagni che come lui hanno fallito il tiro. Il primo ha origini nigeriane, il secondo di Trinidad mentre il padre di Marcus viene dalla Giamaica e sua madre è di Saint Kitts. È lei con il lavoro da cassiera ad aver cresciuto da sola cinque figli. Come ha raccontato lui stesso: «È imbarazzante dirlo ma a volte a tavola non avevamo nemmeno un pezzo di pane e, se mancava anche quello, andavamo dai vicini, ma solo da quelli che capivano». Avrete intuito, gli insulti ai tre è perché sono di colore e perché sono loro che hanno fatto perdere l’Inghilterra. Immigrati ingrati, questo era il pensiero. Noi vi accogliamo e voi ci tradite. L’accanimento odioso contro Rashford era anche perché aveva lanciato una campagna di successo raccogliendo tre milioni per garantire almeno un pasto gratis ai bambini (scolari) poveri in Gran Bretagna durante la pandemia. Tanto da essere premiato Membro dell’Impero Britannico (Mbe) al castello di Windsor. Ma se non segni, anche se vinci il Nobel della fisica Proseguono a darti del somaro, nell’ipotesi più gentile.
In Italia abbiamo avuto Astutillo Malgioglio, una laurea in medicina e una carriera tra i pali, definito «il portiere che para per i più deboli». Perché si occupava in una palestra dei disabili fisici e psicologici. Penserete: brava persona, ma non per i tifosi che lo deridono. Appena prende un gol alla Lazio gli gridano: «Se stai sempre con gli handicappati, quanno ce pensi ar pallone?». Vabbè capita un momento in cui si trascende. Il portiere arriva dalla Roma quindi è un venduto giallorosso. Al Brescia nell’82 l’allenatore Perani lo aveva bocciato «per scarso impegno». Avete capito bene, non è una battuta. Peccato che a Roma gli vengano lanciate bottigliette e pomodori, che la sua auto venga distrutta a mazze e bastoni, che sua moglie sia insultata e sua figlia maltrattata a scuola. Come fai a essere sereno tra i pali in una situazione così? In più gli muore il padre. Malgioglio sbaglia contro il Vincenza, due errori gravi, la Lazio che è in corsa per la Serie A perde 4-3 all’Olimpico dopo essere stata in vantaggio 2-0. In curva Nord sarebbe comparso (ma non esiste prova fotografica) lo striscione: «Tornatene dai tuoi mostri». Forse è stato solo un insulto, l’aria però è quella. A quel punto il portiere perde la testa, esce dal campo, si toglie la maglia, ci sputa sopra (o fa il gesto di) e la lancia verso gli ultrà. Il cattivo è lui, anzi il mostro. Ammette lo sbaglio, ma la società lo sospende e chiede alla federazione la sua radiazione. Il suo è stato un gesto estremo, esiste nello sport una legittima difesa? Offendere i bambini sfortunati, dai, ci può anche stare, ma la maglia no, quella non si tocca. Malgioglio se ne va, vuol dire basta al calcio. Non sa cosa rispondere ai genitori di quei bambini che lo guardano negli occhi. Però arriva la telefonata di Giovanni Trapattoni che lo vuole come vice di Walter Zenga all’Inter, dove in 5 anni gioca poco (19 presenze), ma da dodicesimo giocatore vince lo scudetto e la Coppa Uefa nel ’91. Gli capita anche di scendere in campo da titolare contro la Lazio a Roma, allo stadio Flaminio dove la curva è attaccata alla porta, lui offre dei fiori come gesto di pace, lo contraccambiano con insulti e con tiri di radioline e pile. Perde, ma è il migliore. Lascia nel ’92 per dedicarsi alla sua attività di assistenza (gratuita). Il presidente Sergio Mattarella gli conferisce nel 2021 l’onorificenza al Merito della Repubblica Italiana. Bravo per la società, non buono per il calcio. L’impegno, si teme, distrae dall’ambizione. Chi si occupa degli altri non è abbastanza motivato a darsi da fare per sé e la sua squadra.
Per tornare alla nazionale Usa. Si è caricata sulle spalle una grande responsabilità e pressione, non solo sul campo. L’essere una squadra diversa è stata una forte motivazione a vincere nel 2015 e nel 2019. Ma non è che smettendo di essere ribelli il gruppo torna a dominare. Basta solo giocare meglio. Perdere per un rigore è brutto, ma smarrire l’identità è peggio. Volere un mondo migliore non è mai un tiro sbagliato.