She said è un omaggio al lavoro giornalistico svolto dal New York Times, ma è soprattutto un atto di solidarietà nei confronti di tutte le donne che sono state vittime di abuso psicologico e sessuale.
Diretto da Maria Schrader, questo film vuole dare risalto alle donne in generale, caratterizzando le protagoniste della narrazione con forti personalità, audacia e capacità.
Entriamo nel vivo di una vicenda che si può definire come la linea di demarcazione tra l’inconsapevolezza e la presa di coscienza da parte del mondo femminile, per tutti quei “no” detti a mezza bocca o dei “sì” detti per paura, nei confronti di uomini sbagliati.
La potenza della giustizia
Nel 2017 il NY Times pubblica un’inchiesta scottante a cura di Jodi Kantor e Megan Twohey sui reati sessuali di Harvey Weinstein, produttore cinematografico e molestatore seriale, riconosciuto colpevole nel 2020 e condannato a ventitré anni di detenzione.
Le accuse delle attrici molestate arrivano una dopo l’altra, attraverso soffiate oppure dichiarazioni dirette, così inizia a delinearsi un quadro inquietante.
Il inventore della dimora di produzione e distribuzione cinematografica statunitense Miramax ha abusato di attrici e assistenti per oltre trent’anni, decidendo delle loro sorti professionali come un barbaro aguzzino.

Kantor e Twohey sono disposte a spostarsi ovunque pur di ottenere una testimonianza e conoscere la verità, così insieme ricostruiscono la strategia impiegata da Weinstein per insabbiare i suoi abusi: far tacere vittime comprandole con lauti assegni e astrusi accordi di riservatezza.
Grazie a questa inchiesta, sofferta e sudata, le due giornaliste sconvolgono l’universo hollywoodiano e cambiano il mondo.
Il film non ha colpi di scena, si rimane statici, in attesa che il predatore venga smascherato pubblicamente e che chieda scusa. Scusa per tutto il male che ha provocato.
Per quanto si possa gioire della condanna di quell’uomo, non lo si può fare fino in fondo perché le donne che sono state vittime della sua sopraffazione fisica e mentale non avranno più indietro la propria dignità e la propria serenità. Rimarranno segnate per sempre, portando un macigno sul petto, che diventerà più grave ogni volta che il sordido ricordo sfiorerà i loro pensieri.
Come in Tutti gli uomini del presidente o Il caso Spotlight l’azione è ridotta al minimo, è fatta di telefonate, discussioni intorno a un tavolo, appunti convulsi, conversazioni con i testimoni e porte spesso sbattute in faccia.
La lotta contro la sopraffazione maschilista
Ma come viene rappresentata la violenza sessuale sullo schermo?
Maria Schrader decide di tenerla fuori dal campo visivo del pubblico oppure di schivarla, omettendo e troncando le scene più scabrose. In She said non vengono mai mostrate le aggressioni, gli stupri e nemmeno il volto del loro autore, il quale viene ripreso solo di spalle.
I soprusi e le violazioni dei corpi femminili sono intenzionalmente taciuti, ma ciò che non tace è la voce di tutte quelle donne che decidono di parlare e di condannare il male subito. A volte a fatica, perché la società non sempre è pronta ad ascoltare il dolore altrui, soprattutto quando arriva da una categoria di persone per anni ritenuta inferiore. D’altronde è stata proprio la prevaricazione maschilista e la sua perpetuazione nel tempo ad aver generato il pensiero e l’atteggiamento sessista nei confronti del genere femminile.

L’abuso, dunque, resta sospeso tra i corridoi deserti degli hotel, appena accennato negli audio delle conversazioni, raccontato attraverso le parole delle vittime e immaginato dalle reporter.
La violenza non è che natura morta, si tramuta in vestiti abbandonati sul pavimento o in accappatoi bianchi adagiati sul letto, eppure tormenta, cova, consuma e si auto consuma.
Ma poi finisce per deflagrare e, una volta mormorata al telefono, viene finalmente trascritta e denunciata.
È proprio dopo la pubblicazione del NY Times che si diffonde il movimento #MeToo in tutto il mondo, raccogliendo le testimonianze di tantissime donne.
Anche io
Me Too è, infatti, il movimento di denuncia delle violenze sessuali che prende il nome dall’hashtag, rilanciato dall’attrice Alyssa Milano e divenuto virale dopo il caso Weinstein. Ma il suo primo utilizzo risale al 2006, quando Tarana Burke, attivista per il sostegno delle donne vittime di stupro o molestie, fondò il movimento Me Too su MySpace per mettere in relazione le donne con le persone e le organizzazioni che potevano aiutarle.
L’hashtag proposto è stato condiviso da milioni di utenti di sesso femminile ed ha raccolto tutte gli abusi sessuali consumate sui luoghi di lavoro e di socializzazione, come invito a denunciare storie personali di abusi fisici e psicologici a sfondo sessuale.
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di Veronica Cirigliano
www.2duerighe.com
2023-03-01 14:47:27 ,