Una riscossa della normalità. Così Joe Biden ama definire la sua politica estera. E l’imperativo d’un rilancio di “norme” quali i rapporti con gli alleati tradizionali e il recupero del ruolo di Washington nelle istituzioni multilaterali è sicuramente caro alla Casa Bianca. Necessario a quel lavoro di restauro post-Donald Trump, previsto da veterani dell’establishment quali Richard Haas, direttore del Council on Foreign Relations. Biden debutterà oggi virtualmente, con un simile messaggio, al vertice del G7 – dove debutterà a livello internazionale anche il premier italiano Mario Draghi – e alla Munich Security Conference: si rivolgerà a leader europei tuttora traumatizzati dalle tensioni esplose durante quattro anni di America First.
I segnali distensivi agli alleati
Proprio al forum di Monaco, Biden due anni or sono aveva promesso che l’America «sarebbe tornata», riferendosi al posto che le spetta nel palcoscenico internazionale. Una promessa ripetuta nella prima, recente visita al Dipartimento di Stato, quando ha invocato la nuova centralità della diplomazia.
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Ma superare scetticismi e timori di onde lunghe dell’effetto-Trump – da spettri di Biden nei panni di un Trump redux ad un futuro riemergere dello stesso ex Presidente o di suoi epigoni – è e rimarrà una missione né facile, né breve. Biden ha offerto segnali distensivi agli alleati, non solo su sfide globali quali clima e pandemie ma su dialoghi commerciali che neutralizzino screzi a colpi di dazi. E sull’impegno nel Vecchio continente e nella Nato, cancellando ritiri di truppe americane proprio dalla Germania. Ha accompagnato questi segnali con avvertimenti duri a rivali e avversari strategici che denuncia come aggressivi, la Russia e soprattutto la Cina, sottolineando anche qui però quale strumento principe azioni da intessere con nazioni amiche, la creazione di fronti comuni che evitino politiche apostrofate come unilaterali e erratiche.
Le possibili frizioni
Le possibili frizioni
Non mancano tuttavia i nodi da sciogliere per un nuovo multilateralismo e per un affiatamento con l’Europa. I critici temono che Biden possa rivelarsi poco ambizioso in cruciali test quali un ripristino dell’accordo nucleare con l’Iran. Sul fronte economico Washington evoca politiche Buy American che innervosiscono gli alleati. Mentre la Ue firma accordi sugli investimenti con la Cina e procede con il progetto Nord Stream 2 con la Russia nonostante le obiezioni del team di Biden.
Proprio l’economia emerge tra i terreni più delicati. Biden appare in realtà voler accelerare quella che è stata definita come una lunga rivoluzione silenziosa nella politica estera statunitense – che ha elementi di continuità anche con l’eredità di Trump. In gioco è la fusione sempre più stretta tra sicurezza nazionale e sicurezza economica, di fatto una politica industriale per il potenziamento e la difesa della base manifatturiera e delle sue catene essenziali di forniture. È una scelta che nasce dalla preoccupazione di spingere la competitività statunitense quale pilastro di leadership. E che è oggi incarnata da nomine alle spalle di quelle di maggior richiamo, quali il Segretario di Stato Antony Blinken o l’inviato speciale sull’effetto serra John Kerry, ma più rivelatrici.