«Sarò felice di lavorare insieme a Debora Serracchiani e Simona Malpezzi. Due donne determinate, di qualità e competenti. Voglio ringraziare Graziano Delrio e Andrea Marcucci che hanno aiutato ad arrivare alla soluzione di due donne alla testa dei gruppi del Pd. Ringrazio anche Marianna Madia e tutte le parlamentari. Sembrava impossibile dieci giorni fa, ora ci siamo».
Enrico Letta chiude con soddisfazione la partita degli organigrammi: dopo aver nominato in solitaria, senza trattative con le correnti, i due giovani vice Irene Tinagli e Peppe Provenzano e la nuova segreteria, il neo segretario dem in pochi giorni ha imposto anche il cambio di passo alla guida dei gruppi. Certo, le due nuove capogruppo sono entrambe espressione della minoranza interna (Malpezzi di Base riformista, Serracchiani vicina a Delrio ma comunque appoggiata da Base riformista), e non è un mistero che Letta avrebbe gradito di più l’elezione di Madia. Ma non poteva essere altrimenti in gruppi formatisi in un’altra epoca, quando il leader del Pd era ancora Matteo Renzi.
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Voto alla Camera secondo le previsioni
La votazione alla Camera, dopo giorni di polemiche tra le due contendenti, è infine andata secondo le previsioni: su 93 votanti 66 hanno scelto Serracchiani e 24 Madia. Ad ogni modo Letta è riuscito dove i suoi predecessori, Zingaretti ma anche Renzi, non hanno neanche osato: ossia mettere bocca nei gruppi parlamentari. «La situazione del Pd è incrostata di un maschilismo per rompere il quale c’è bisogno di gesti forti», è il commento del segretario, che vede maschilismo fare rima con correntismo.Ora si può «guardare avanti». Il che significa anche battere il ferro finché è caldo, ossia finché perdura la fiducia riposta in lui da un partito sotto choc dopo le improvvise dimissioni di Nicola Zingaretti, per imporre anche linea politica e alleanze.
Le prossime partite
A partire dalle amministrative, dove pesa come un macigno il caso Roma con il M5s schierato con Virginia Raggi e dunque indisponibile a convergere su un candidato comune, per arrivare alle politiche del 2023. Sempre che alla fine non si voti in anticipo, nella primavera del 2022, subito dopo aver eletto il successore di Sergio Mattarella al Quirinale. Per questo per Letta è così importante, e urgente in caso di elezioni anticipate, ridefinire il ”campo da gioco” e portare avanti anche i temi delle riforme istituzionali e di una legge elettorale maggioritaria per facilitare la formazione di un nuovo bipolarismo: da una parte il centrodestra, dall’altra il campo progressista in formazione che nelle intenzioni di Letta va da Azione di Calenda fino al M5s e a Leu passando possibilmente anche Italia Viva (ma l’incontro con Renzi non è ancora in agenda).
L’incontro con la leader di FdI Meloni
In queste ore il segretario dem, dopo il faccia a faccia con il coordinatore nazionale di Forza Italia Antonio Tajani, ha voluto incontrare anche la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni rimasta all’opposizione. Sul tavolo due riforme che rafforzerebbero l’impianto bipolare: la sfiducia costruttiva e norme parlamentari anti-trasformismo. E naturalmente la legge elettorale. Ma qui Letta ha dovuto registrare una certa freddezza. Chiaro che Fratelli d’Italia è per un sistema maggioritario in cui chi vince governa – è stato il ragionamento della leader, che ha ricordato anche che il suo partito fu il solo a non partecipare alla stesura dell’attuale Rosatellum – ma parlare di riforma elettorale in questo momento di crisi «sarebbe surreale, la gente non ci capirebbe».Dietro la freddezza di Meloni non c’è naturalmente solo una questione di appeal elettorale del tema: la verità è che stando ai sondaggi – che ormai da mesi danno il centrodestra unito sopra il 40% – Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia vincerebbero anche con l’attuale Rosatellum. Che come si ricorderà prevede il 36% circa di collegi uninominali, dove viene eletto solo il primo arrivato, e il restando 64% di proporzionale puro con lo sbarramento del 3%. E la spinta maggioritaria dei collegi nel Rosatellum è molto forte: se una coalizione è sopra il 40% e vince in oltre il 60% dei collegi ottiene la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento.