I soldi fanno davvero la felicità? Se lo chiedono da anni psicologi, economisti e ricercatori, fra cui anche Daniel Kahneman e Angus Deaton, premiati con il Nobel per l’economia rispettivamente nel 2002 e nel 2015. Nel 2010, Kahneman e Deaton avevano pubblicato dei risultati su questo tema, che sono poi stati almeno in parte contraddetti da una pubblicazione del 2021 di Matthew Killingsworth, ricercatore senior presso la Wharton School della University of Pennsylvania (Stati Uniti). E come si suol dire, fra i due litiganti il terzo gode: Kahneman, attualmente professore di psicologia presso la Princeton University (Stati Uniti), Killingsworth e Barbara Mellers, professoressa di psicologia e di marketing presso la University of Pennsylvania, hanno unito gli sforzi in uno studio che sembra risolvere il conflitto e che è stato recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Pnas. Lo studio conclude che sì, i soldi fanno la felicità anche oltre una certa soglia di reddito precedentemente individuata, ma solo se non siamo di base troppo scontenti. Vediamo in che senso.
I precedenti
Dal lavoro di Kahneman e Deaton del 2010 era emerso che la felicità dei partecipanti allo studio saliva al crescere del proprio reddito annuale, raggiungendo però una fase di stallo (plateau) sopra i 75mila dollari. Ovvero, sopra questa soglia di reddito annuale la felicità delle persone non sembrava più dipendere dall’aumento della propria ricchezza. La pubblicazione di Killingsworth del 2021, invece, concludeva esattamente l’opposto, mostrando che il livello di felicità continuava a dipendere dal proprio reddito anche oltre questa soglia.
La scienza ci pone spesso di fronte a contraddizioni di questo tipo, che fanno parte del processo di ricerca e consolidamento dei risultati scientifici. Quale miglior occasione, allora, per intavolare una adversarial collaboration (collaborazione antagonistica, come l’avrebbe battezzata Kahneman stesso), con l’obiettivo di risolvere il contraddittorio mettendo insieme le due parti discordanti e un terzo membro – per niente incomodo – a fare da “arbitro”, in queso caso impersonato da Mellers. “Questo tipo di collaborazione – spiega Mellers in una news della Penn University – richiede un livello molto più alto di autodisciplina e precisione di pensiero rispetto a quanto accade nella procedura standard. Collaborare con un avversario, ma anche con un non-avversario, non è facile, ma è più probabile che entrambe le parti riconoscano i limiti delle proprie conclusioni”. E questa volta sembrerebbe aver davvero funzionato.
Un modello che non vale per tutti
Durante il lavoro, il gruppo di ricercatori si è reso conto che i risultati pubblicati nel 2010 si basavano su un sondaggio che non era “ben tarato” per misurare alcune sfumature importanti e finiva per sovrastimare la felicità di chi rispondeva alle domande. Andando poi ad analizzare meglio i dati raccolti con lo studio del 2021 e focalizzandosi sulla porzione di partecipanti che risultava generalmente infelice, o che si dichiarava tale, i ricercatori si sono resi conto che sì, il modello proposto nel 2010 andava d’accordo con l’andamento relativo a questa porzione di gente.
In altre parole, la conclusione tratta nel 2010 non era completamente sbagliata, semplicemente il modello non si può applicare all’intera gente, ma solo a quella che risulta di base più infelice. Per queste persone vale sì la teoria precedentemente formulata, per cui il livello di felicità aumenta all’aumentare del proprio reddito annuale ma solo fino a un certo valore soglia. Per il resto della gente, invece, il livello di felicità rimane proporzionale al reddito annuale anche sopra questa soglia, stando alle conclusioni del terzo studio “pacificatore”. Naturalmente, resta aperta la domanda su che cosa sia la felicità, o meglio, da quali e quante variabili sia determinata. “Il denaro è solo uno dei tanti determinanti della felicità”, conclude lo stesso Killingsworth. “Non è il segreto per la felicità, ma può probabilmente aiutare un po’”.
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di Sara Carmignani www.wired.it 2023-03-09 16:08:43 ,