Il Movimento 5 stelle sembra proprio aver superato il Pd, o almeno è stabilmente a fianco. Come dimostra la “supermedia” Youtrend/Agi effettuata il 17 novembre (si tratta di una media ponderata dei sondaggi nazionali sulle intenzioni di voto dei 15 giorni precedenti, da Swg a Tecnè, da Noto a Demos a EMG): in 15 giorni il partito di Giuseppe Conte è arrivato al 17,4% guadagnando lo 0,8, mentre il Pd è sceso al 16,8% perdendo lo 0,6%. Il tutto mentre quello che dovrebbe essere il nemico comune, ossia il partito della premier Giorgia Meloni Fratelli d’Italia, è ormai al 30% dal 26% raccolto il 25 settembre.
Se il Pd nel guado congressuale perde un punto al mese
Se si considera che alle elezioni il Pd ha preso il 19% dei voti e il M5s il 15,6%, i democratici sembrano aver perso in poco meno di due mesi il 2,2% dei consensi e i pentastellati sembrano averne guadagnati 1,8%.
«Se il trend dovesse continuare – è l’amara considerazione di un dirigente dem – tra quattro mesi saremo arrivati al 12,4….». Già, perché inizialmente le primarie conclusive del congresso erano state fissate al 12 marzo. Ed è chiaro che un Pd in mezzo al guado di una discussione congressuale “costituente” a tratti filosofica (chi siamo, dove andiamo e perché ci andiamo) e per di più con un leader di fatto dimissionario e quindi solo traghettatore – Enrico Letta ha chiarito fin dal giorno dopo la sconfitta elettorale che non si sarebbe candidato alla successione di se stesso – è una sorta di terra di nessuno esposta ai colpi degli ex alleati del campo largo che mirano a prosciugarne il più possibile il bacino elettorale dei dem: da una parte il M5s, che punta ai voti più di sinistra e “antagonisti”, dall’altra il Terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi, che punta ai voti cosiddetti rifomisti dell’area liberal-democratica e cattolica.
Letta e la fatica di anticipare le primarie da marzo a gennaio
Da qui la fatica di Sisifo che ha fatto Letta, nelle ultime settimane, per tentare di anticipare i tempi. Nella convinzione che ormai solo una nuova leadership sarà in grado di rilanciare il partito e di riportarlo al centro dell’area di opposizione al governo di destra-centro guidato da Meloni. Il segretario avrebbe voluto fin dall’inizio la conclusione del percorso congressuale a fine gennaio: in questo modo le candidature si sarebbero formalizzate entro Natale avviando subito il confronto anche mediatico tra i principali competitor. E la storia dei congressi del Pd insegna che quando scendono in campo i candidati i sondaggi premiano. Mentre una discussione tutta incentrata sui temi filosofici della fase “costituente” sarebbe poco comprensibile all’esterno e sicuramente poco attrativa.
Il compromesso delle correnti sul 19 febbraio: basterà?
Ma a fine gennaio non si può. Troppo presto per i dirigenti dem e i capicorrente che temono di essere “rottamati” dal nuovo leader. Soprattutto se il nuovo leader dovesse essere il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, che si appoggia a una fitta rete di amministratori e sindaci e nel partito è fin qui supportato solo dagli ex renziani di Base riformista, la corrente che fa capo all’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Bonaccini, d’altra parte, ha chiarito per tempo che serve un radicale ricambio di classe dirigente. Questo spiega perché molti dirigenti che non vengono dalla storia Pci-Ds come Dario Franceschini stiano puntanto, nella speranza di condizionarla, sulla neo deputata Elly Schlein, scesa in campo nei giorni scorsi con una piattaforma molto di sinistra e “movimentista”. Insomma, per tentare di fermare la corsa di Bonaccini occorre più tempo. Da qui il compromesso del 19 febbraio, con le candidature ufficiali che restano fissate a fine gennaio. Ancora due mesi di agonia?