Flashdance dopo 40 anni è un film perfetto per ricordarci che spesso critica e pubblico non la pensano minimamente allo stesso modo. La pellicola diretta da Adrian Lyne rimane un simbolo transgenerazionale la cui potenza ed eredità non ha conosciuto alcun ridimensionamento.
La sua musica, le sue sequenze, sono patrimonio comune e influenzano cinema e molto altro ancora oggi. Ecco perché ogni possibile valutazione necessità di confrontarsi con una certezza: ha cambiato il concetto stesso di film musicale, diventando al contempo un concentrato del meglio e del peggio della cinematografia di quel decennio, nonché della sua rappresentazione femminile
Il film giusto al momento giusto
Flashdance era una sorta di mix tra la saga di Rocky Balboa, Saranno Famosi e Cenerentola, un mix tanto elementare quanto potentissimo, che fin dall’inizio stregò il pubblico internazionale come nessuno poteva aspettarsi. La produzione non era stata priva di problematiche, soprattutto per il casting, con la protagonista Jennifer Beals che vinse la gara contro Demi Moore e Leslie Wing. Voci di corridoio dicono che fu dovuto a uno screen test fatto su un pubblico maschile, su chi tra le tre trovassero più sexy ed attraente. Non proprio il massimo a pensarci bene, eppure fu incredibilmente coerente con ciò ciò che rappresentò quel film nell’immaginario collettivo dell’epoca. Flashdance risplende ancora oggi di una grandezza innegabile, che raggiunse perché in grado di attrarre un pubblico trasversale, in un modo che nessuno, neppure i produttori, avrebbero reputato possibile.
200 milioni di dollari, a fronte di un budget di neppure 10. Questo ci dà la misura di un successo che si mise in tasca tutti gli altri, compresi i prodotti che sul piccolo schermo avevano celebrato la pop culture che risplendeva sulla pista da ballo. Flashdance di fatto ebbe un impatto sul pubblico inimmaginabile, ancora oggi con pochissimi pari. La trama non era particolarmente complicata, seguiva la giovanissima operaia siderurgica Alex (Jennifer Beals), che coltivava il sogno di entrare nell’accademia di danza di Pittsburgh. Tuttavia non ha abbastanza fiducia in se stessa ed è praticamente sola al mondo, senza grandi conoscenze nell’ambiente. La love story che intraprenderà con il padrone della fabbrica in cui lavora, Nick (Michael Nouri) sarà solo il primo di tanti stravolgimenti che la porteranno a guardare con maggior audacia alla sua vita e al suo sogno. Lo inseguirà ed acciufferà dopo un provino semplicemente fantastico.
Flashdance univa in sé in meglio della fantasia femminile con il corrispettivo della fantasia maschile. In quegli anni ‘80 la crisi della seconda ondata femminista portò ad un profondo cambiamento nel mondo delle donne. Non più lotta per i diritti, emancipazione, ma il culto del successo, assieme alla volontà di bearsi di una esteriorità che parlava di potere sessuale, autorealizzazione, con corpi sodi, glutei marmorei e visibilità. Il potere era quello che si esercitava sul maschio, era nel sogno dei 15 minuti televisivi warholiani. Era qualcosa che però passava bene o male anche attraverso il consumismo e una rappresentazione di se stesse che fosse perfettamente in linea con l’immaginario maschile dell’epoca. Ed è qui che entra in ballo proprio lui, Nick, perfetto esempio non solo e non tanto dell’evoluzione del principe azzurro, ma anche di ciò che un uomo in quegli anni ’80 sperava sia di essere che di avere.
Ebbene sì, perché mentre Alex sogna di essere più sicura di se stessa, di dimostrare a tutti che lei può essere veramente una ballerina, non finire in qualche strip club o a spezzarsi la schiena continuamente in quella fabbrica, intanto scopre anche altro: scopre il sesso.
Per quanto perplessa dall’avere una relazione con il suo capo, mette tutto da parte perché quella nuova vita che sogna, passa attraverso anche una conquista sentimentale e fisica.
Secondo l’immaginario dell’epoca (anche di oggi inutile negarlo) chi meglio di un uomo più grande, più esperto, poi scoprirà anche già divorziato, per darle ciò che chiede? Tale elemento è poi lo specchio riflesso della fantasia maschile più tipica: quella di avere una ragazza più giovane, bella, che non ti metta in discussione. C’era quindi sia un’eroina per le ragazzine degli anni ’80, che un sogno erotico per gli uomini, un totem per questi ultimi e il principe azzurro ideale. Era imbattibile.
Tra rinnovamento estetico ed eredità musicale
Flashdance a tanti anni di distanza non è mai stato rivalutato dalla critica, per la scrittura fin troppo elementare, con un’incapacità di andare a fondo in tematiche ancora oggi attuali. L’emancipazione, la condizione delle donne sul posto di lavoro, la violenza di genere, il classismo dell’America reaganiana erano solo accennati. Nulla doveva turbare la favola della Principessa danzante. Il che spiega perché ancora oggi molti gli preferiscono Dirty Dancing, Footloose e naturalmente Saranno Famosi. Tuttavia c’è un altro elemento che deve farci considerare questo film come il più importante del genere di quel decennio: la dimensione visiva e musicale. Flashdance aveva una regia e un montaggio semplicemente sensazionali, ma soprattutto incredibilmente avveniristici, un po’ come avrebbe fatto di lì a poco anche Top Gun, altro film destinato a sedimentarsi nell’immaginario collettivo in virtù della potenza estetica.
Entrambi si nutrivano di velocità, di cambi di prospettiva ma soprattutto del linguaggio del videoclip. MTV era entrata nelle case delle persone, ma soprattutto aveva posto una nuova concezione di narrazione: ultra concentrata, fatta di intensità e una sonorità trionfante.
Non servivano le parole, bastavano i suoni, i movimenti di un corpo per esprimere un’emozione e raccontare una storia. Il tutto andando a stravolgere l’espressione spazio-temporale classica, con l’utilizzo del rallenty, con l’amplificazione o al contrario l’accelerazione sempre più presenti.
Tra i tanti film incentrati sul ballo di quegli anni ’80, nessuno come Flashdance ha saputo farsi portatore di questa evoluzione del linguaggio audiovisivo, cucirlo attorno ad un racconto basato sul tema del riscatto, in pieno accordo a quella autorealizzazione individuale che l’America yuppie amava alla follia.
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di Giulio Zoppello www.wired.it 2023-04-15 04:50:00 ,