Siamo alla tregua, sia pure momentanea. Giuseppe Conte continua a sostenere il “no al riarmo” assicurando di «non volere tornare indietro sui suoi passi». Ma i toni del presidente del M5s sono apparsi assai ieri assai meno belligeranti di quelli di 24 ore prima. Complice la salita al Colle di Mario Draghi martedì sera, con la quale il premier ha fatto capire che l’eventuale messa in discussione dell’impegno preso con la Nato otto anni fa di raggiungere il 2% del Pil per la spesa militare entro il 2024 comporterebbe «il venir meno del patto di maggioranza».
Conte depone le armi
Una mossa, quella di Draghi, che ha spiazzato – per sua stessa ammissione – il leader 5 Stelle: «Sono rimasto sorpreso, questo però non cambia le cose…». Eppure che avesse deciso di deporre le armi lo si era già capito nel corso dell’assemblea con i senatori pentastellati. Conte aveva infatti apertamente ribadito la disponibilità a votare la fiducia sul decreto Ucraina prima ancora che il governo la ufficializzasse. Decisione presa poco dopo, che consentirà oggi al decreto un passaggio indolore a Palazzo Madama, dal momento che con la fiducia non potrà essere ripresentato in Aula l’ordine del giorno di Fratelli d’Italia su cui martedì si era sfiorata la rottura della maggioranza.
La data del 2028
Ad aiutare il M5s a uscire dall’angolo in cui sembrava essersi confinato sono state anche, se non soprattutto, le parole pronunciate dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini nel pomeriggio: «Dal 2019 ad oggi abbiamo intrapreso una crescita graduale delle risorse che ci consentirà, se anche le prossime leggi di bilancio lo confermeranno, di raggiungere la media di spesa dei Paesi dell’Unione europea aderenti alla Nato e poi, entro il 2028, il raggiungimento dell’obiettivo del 2%». L’indicazione del 2028 come deadline è infatti assai vicina a quel 2030 che Conte aveva indicato poco prima come traguardo per il rispetto dell’impegno con la Nato: «Noi non abbiamo mai detto che l’impegno con la Nato non va rispettato, abbiamo solo chiesto maggiore gradualità vista la condizione economica del Paese dopo la pandemia. Ad esempio entro il 2030. Il M5s non vuole la crisi di governo. Bene Guerini». Dal punto di vista dell’ex premier, dunque, si tratta di una vittoria del Movimento, visto che dal 2024 si è arrivati ad una data più vicina a quella da lui indicata.
In realtà il tema della data non è mai stato davvero sul tavolo. Se c’è qualcuno che l’ha posta è stato Conte, e anche il decreto Ucraina oggi al voto del Senato non affronta il tema del riarmo. L’unico spunto per un braccio di ferro è stato trovato nell’ordine del giorno di Fratelli d’Italia sul mantenimento degli impegni con la Nato entro il 2024, per altro identico a quello già votato alla Camera da tutti i gruppi parlamentari, compreso il M5s. Da qui l’ira del premier, che ha giudicato del tutto strumentale l’atteggiamento del suo predecessore. Sul tavolo, in vista del Def, c’è al momento la previsione di una crescita in linea con quella degli anni precedenti, crescita iniziata proprio con i governi guidati da Conte. Ma naturalmente tutto è legato agli sviluppi della guerra della Russia contro l’Ucraina, a partire dal ruolo già attribuito all’Italia nella futura fase di pacificazione.
Il banco di prova del Def
Lo scontro, insomma, potrebbe riproporsi più avanti, anche prima della legge di bilancio. Un primo banco di prova sarà certamente la risoluzione sul Def in dirittura d’arrivo. Nel Pd sale la preoccupazione, assieme al timore che Conte abbia già deciso di uscire dalla maggioranza nei prossimi mesi per lucrare dall’opposizione sul malcontento sociale e sull’opposizione alla guerra. «L’Italia lascerebbe sbigottito il mondo intero se si aprisse ora una crisi di governo. Crisi dannosa per noi, e tremendamente negativa per il processo di pace e per chi soffre per via della guerra», ha detto Letta, che in serata ha avuto un colloquio con Draghi per ribadirgli il pieno sostegno del Pd su tutta la linea.