Il presidente e le accuse di un ruolo politico dopo la bocciatura del quesito sull’eutanasia
«Parlare per spiegare quello che facciamo l’ho sempre considerato un dovere della Corte, anche quando non lo ha fatto. Mi è capitato, in passato, di riprendere amichevolmente giudici o presidenti dicendo “parli di troppe cose che non hanno niente a che fare con la Corte, sarebbe meglio se parlassi un po’ di più per spiegare le sentenze”». Il senso di Giuliano Amato per la comunicazione sul suo lavoro e su come intende il ruolo di presidente della Corte costituzionale, è racchiuso in questa frase. Il giorno dopo la conferenza stampa in cui ha annunciato le decisioni della Consulta sui referendum e illustrato le ragioni di cinque sì e tre (più rumorosi) no ai referendum
, si discute di quella scelta quasi più che del merito delle questioni affrontate in camera di consiglio e svelate dal presidente. Che s’è presentato ai giornalisti, e tramite loro al Paese, non per iniziativa personale ma su mandato degli altri giudici costituzionali.
Erano rimasti colpiti — malamente colpiti, perché prima ancora che ingiuste le consideravano frutto di incomprensioni — dalle critiche «al buio» sulla bocciatura del quesito sull’eutanasia
. Di lì la delega ad Amato, per illustrare le ragioni di una decisione tanto attesa quanto controversa. Ma affidare una spiegazione su questioni che investono più istituzioni a chi, prima di approdare alla Consulta, è stato al governo e in Parlamento, significa estenderla inevitabilmente ad altre considerazioni. Giuliano Amato è il primo presidente della Corte, su quarantacinque, ad essere stato anche presidente del Consiglio e deputato; è quasi naturale che sottolinei l’esigenza dell’interlocuzione tra poteri dello Stato. Tanto più sui «conflitti valoriali» di difficile soluzione.
«Ma se dovessi indicare ciò che più ha influito sulle mie attitudini direi il permanente esercizio del mestiere di professore, che mi ha insegnato a parlare agli altri cercando di chiarire e farmi capire», commenta Amato all’indomani della conferenza stampa che quasi ne ha disegnato un nuovo ruolo. Sebbene lui sostenga che no, c’era solo la necessità di spiegare. E s’è capito quando, dopo aver ampiamente illustrato le motivazioni della bocciatura del referendum chiamato «sull’eutanasia», s’è sentito chiedere, «come uomo più che come presidente», se avesse pensato ai sentimenti del milione di firmatari e dei malati in attesa, ha reagito quasi seccato: «Glielo ripeto: si pensava che fosse un referendum rivolto alle persone che soffrono, mentre apriva l’immunità penale a chiunque uccidesse qualcun altro con il suo consenso, sofferente o meno che fosse. Questo è ingiusto, anche per chiunque in quel milione di firmatari. Occorre dimensionare il tema dell’eutanasia a coloro che soffrono e per cui abbiamo già ammesso il suicidio assistito, ma questo, sulla base del quesito referendario, non-lo-po-te-va-mo-fa-re. Con altri strumenti chissà, di sicuro può farlo il Parlamento. Punto».
Poche parole per rivendicare la decisione della Corte, bacchettare i promotori della consultazione, indicare la via possibile dell’eccezione di costituzionalità, sottolineare la responsabilità del legislatore. Che Amato non accusa, anzi difende. Perché lo è stato a lungo, e sa bene «che deputati e senatori lavorano, forse sono troppo occupati dalle questioni economiche, ma hanno grosse difficoltà a mettersi d’accordo su temi per i quali, se non si trova la soluzione, alimentano dissensi che possono corrodere la convivenza civile». Così come, da ex ministro ed ex premier, ricorda di essere entrato la prima volta nel palazzo della Consulta a fine anni Ottanta per ricordare al presidente che i vincoli di bilancio valgono anche per la Corte: «E la Corte s’è molto autodisciplinata nel prendere decisioni che comportano aggravi di spesa per lo Stato».
Consapevole di possedere una leadership non comune fra i colleghi, dopo quello che qualcuno ha chiamato «Amato show» il neo-presidente quasi si stupisce dello stupore. E ribadisce il dovere di spiegare, soprattutto nel rapporto tra la Corte i cittadini. Che non si basa sul consenso, come avviene per governo e Parlamento, ma sulla fiducia nell’istituzione. Che ha bisogno di trasparenza. Ancor più su questioni molto sentite, come il «fine vita», ma pure le droghe leggere o la responsabilità diretta dei giudici, gli altri due quesiti bocciati. Presentarsi in pubblico e chiarire non significa usurpare spazi politici altrui, ma proteggere il ruolo della Corte. Come è avvenuto quando, nel mezzo della palude per l’elezione del capo dello Stato, qualche esponente di partito gli ha mandato a chiedere se fosse d’accordo per un tentativo sul suo nome, in modo che i parlamentari potessero contarsi, e lui ha risposto che istituzioni come la Corte costituzionale, ma anche il Senato, non si tirano dentro diatribe di parte. Vanno preservate. Non per il bene di chi le occupa temporaneamente, ma delle istituzioni stesse.
17 febbraio 2022 (modifica il 17 febbraio 2022 | 23:10)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Giovanni Bianconi , 2022-02-17 20:35:12
www.corriere.it