di Viola Rita
Ricerche iniziali, senza gruppo di controllo (dunque non controllate e randomizzate), hanno mostrato dei primi risultati favorevoli. Due studi, strutturati invece secondo gli standard e sostenuti dalle aziende Medtronic e St. Jude Medical, non hanno al contrario messo in luce miglioramenti significativi. Ma non sempre va così. C’è per esempio una ricerca molto “longeva”, durata 11 anni, iniziata nel 2009 e appena pubblicata su The Journal of Clinical Psychiatry, con un esito favorevole. In questo caso, infatti, l’indagine, per ora solo su 8 pazienti, mostra che metà di loro ha mantenuto un miglioramento del 50% nei punteggi relativi alla scala della depressione, in particolare nella scala Madrs. I dati, però, non sono sufficienti per dimostrare in maniera significativa l’efficacia del trattamento.
“In generale i risultati sono ancora circoscritti – commenta Servello – anche se la prospettiva di studio è a mio avviso promettente. Fra gli ostacoli, il coinvolgimento di pochi pazienti e il fatto che finora spesso gli effetti sono stati valutati a distanza di sei mesi dalla procedura. Anche in altre patologie trattate con la Dbs, questo periodo di tempo può essere insufficiente per valutare l’impatto della terapia”. Il follow-up, dunque, dovrebbe essere esteso. Inoltre ci sono ostacoli pratici. “Talvolta, i costi iniziali molto elevati – chiarisce l’esperto – non incentivano a finanziare il trattamento nelle patologie in cui questo non è ancora utilizzato in maniera estesa o è impiegato per un uso compassionevole”.
Da tempo gli scienziati cercano segnali chiari, biomarcatori, per ottimizzare l’approccio sperimentale, nonché velocizzare e rendere più mirate le ricerche cliniche. Nello studio appena pubblicato su Translational Psychiatry i ricercatori hanno trovato uno di questi possibili segnali. L’attività elettrica del cervello si esprime attraverso diversi tipi di onde, fra cui le alfa, le beta, le gamma, le delta e le theta. Il ritmo beta viene spesso collegato al Parkinson dato che è associato alla capacità del cervello di fermare o dare corso a un’azione, dunque a un movimento.
Ora gli scienziati hanno studiato questo ritmo attraverso una stimolazione procurata nel momento dell’impianto del dispositivo. Dal test hanno rilevato una variazione delle onde beta, in particolare di una riduzione dell’intensità. Il cambiamento elettrofisiologico era più marcato nei partecipanti che successivamente hanno manifestato benefici maggiori dal trattamento. Per questo, gli autori hanno ipotizzato che l’alterazione del ritmo beta possa essere legata in qualche modo anche alla depressione, e non solo al Parkinson.
Una breve storia della stimolazione cerebrale profonda
L’invenzione e la prima applicazione della tecnica risale al 1987, quando è stata testata dal neurochirurgo Alim Benabid e dal neurologo Pierre Pollak a Grenoble su individui con tremore essenziale – il più comune disturbo del movimento, caratterizzato da movimenti ritmici e tremore di mani, gambe, testa e tronco (e può colpire in certi casi anche la voce). Tuttavia, come racconta un articolo sulla rivista scientifica Social Studies of Science, molti clinici conoscevano già da qualche decennio gli effetti terapeutici dell’elettro-stimolazione del cervello e inoltre le tecnologie di neurostimolazione sono state sviluppate a partire dagli anni ’60.
Dopo aver accumulato numerose prove, nel 2002, la Food and Drug Admnistration (Fda), l’ente Usa che controlla e regola farmaci e alimenti, ha approvato la Dbs nel Parkinson, nel tremore essenziale e nella distonia, che si manifesta con contrazioni muscolari involontarie. Nel 2009 la Fda ha autorizzato la stimolazione cerebrale profonda nel disturbo ossessivo compulsivo e nel 2018 nell’epilessia, anche se attualmente l’esperienza clinica principale riguarda il Parkinson e gli altri due disturbi del movimento. Attualmente, è in corso di studio anche nella sindrome di Tourette, nel dolore cronico e nella depressione, anche se ancora non approvata per queste condizioni.
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www.wired.it
2021-12-08 06:00:00