Sessant’anni, più uno. L’edizione 2020 degli Europei, posticipata al 2021 per la pandemia e al via l’11 giugno, celebra l’anniversario della manifestazione e per questo coinvolge 11 città ospitanti di altrettanti Paesi. Il torneo nacque nel 1960 su idea di Henri Delaunay e fino al 1976 alla fase finale partecipavano solo 4 squadre, che divennero 8 nel 1980,16 dal 1996 e 24 dal 2016. Dalla prima vincitrice, l’Unione Sovietica, all’ultima, il Portogallo in Francia, riviviamo la storia della coppa.
I CAPOCANNONIERI – TUTTE LE PARTITE: LA MAPPA
Il ragazzo Lev era andato a lavorare in fabbrica a quattordici anni, perché gli uomini erano tutti al fronte, quasi tutti a morire. Il freddo di Mosca, i compagni operai che gli tiravano i bulloni e lui li prendeva al volo. Era il 1943. Diciassette anni dopo, Lev Yashin avrebbe difeso la porta dell’Unione Sovietica parando non bulloni ma palloni, e acchiappandoli tutti.
Era la prima edizione degli Europei di calcio, anno di grazia 1960, fase finale (appena quattro partite) in Francia, però senza colossi come Germania Ovest, Italia e Inghilterra. L’epilogo fu Urss-Jugoslavia: due Nazionali, dunque due nazioni, che neppure esistono più. Geografia e storia cambiarono, compresa quella del calcio: perché mai nessun portiere prima di Yashin (e tantomeno dopo, anzi soprattutto dopo) era riuscito a vincere il Pallone d’Oro. A Lev lo diedero nel 1963, cioè tre anni dopo quella finale che i russi vinsero 2-1. Fu una partita aspra, molto muscolare, a ritmi che oggi sarebbero lentissimi, una moviola, un Var.
Oro olimpico a Melbourne ’56, a parte la nazionale il grande Yashin ha avuto soltanto una squadra nella sua carriera e nel cuore, la Dinamo Mosca: per giocarci, lo pagavano come un professore di ginnastica. In 22 anni (smise a 41) parò 86 rigori, e nell’Europeo ’60 sembrava quasi un libero aggiunto, precursore dei portieri bravi anche con i piedi. Vestiva solo di nero.
I dittatori hanno spesso usato il calcio e lo sport per farsi belli, per accrescere il consenso, per dare pienezza ancora più assoluta alla propria tirannide, per umiliare i nemici, molto più che avversari. Lo fece Hitler a Berlino 1936, beffato però dal nero Jesse Owens. Lo fece Mussolini ancora prima, con gli azzurri mondiali nel ’34 e nel ’38, era l’Italia che salutava il Duce a braccio teso prima delle partite. E lo fece anche Francisco Franco nella sua Spagna, durante una di quelle dittature sopravvissute alla seconda guerra mondiale.
Seconda edizione dei Campionati Europei di calcio 1964, fase finale proprio in Spagna con maggiore completezza di partecipanti rispetto al 1960. Si usarono i tacchetti in duralluminio, e l’Italia partecipò per la prima volta. Venne eliminata nei quarti di finali dall’Urss, la formula era quella dell’andata e del ritorno. In Spagna si disputarono solo le semifinali e la finale. Sulle gradinate del Santiago Bernabeu, 79 mila spettatori ufficiali ma in realtà 125 mila, assiepati ovunque.
E c’era anche il dittatore, il generalissimo che aveva chiesto alla sua Nazionale di battere i rossi comunisti: però il pubblico di Madrid applaudì ugualmente l’inno sovietico. Gli spagnoli vinsero 2-1 e fu anche un triste successo politico della Falange, con una curiosità a margine: siccome mancava la ripresa filmata del gol vincente, la televisione spagnola costruì quelle immagini con un fotomontaggio, “creando” un cross inesistente di Amancio per il marcatore Marcelino. Invece, quel passaggio lo aveva fatto Pereda. Lo si è scoperto solo nel 2007. Si sa che le dittature cambiano, nascondono, ingannano. Con ogni mezzo.
“Ero sicuro”, disse Tarcisio.
Rimasi seduto, tranquillo, sulla panca dello spogliatoio perché ero sicuro che Giacinto avrebbe scelto il lato giusto della moneta: lui sceglieva sempre la parte giusta.
Tarcisio, Giacinto. Quando i calciatori si chiamavano così.
I cuccioli del maggio parigino non avevano ancora smesso di mostrare le unghie, e gli azzurri di zio Uccio Valcareggi cominciavano il loro ’68. Una rivoluzione vittoriosa che, nella storia del Campionato Europeo, ancora non ha eguali. Ma prima di arrivare all’epilogo, e di vincere la Coppa con i gol di Gigi Riva e del povero Pietro Anastasi, gli azzurri dovettero superare l’Urss in semifinale. Accadde al San Paolo di Napoli, e non bastarono i tempi supplementari. All’epoca di Giacinto e Tarcisio, non esisteva la soluzione dei calci di rigore: in caso di parità, una finale veniva rigiocata e una semifinale si affidava alla sorte. Dunque, dopo 120’ infruttuosi il capitano Giacinto Facchetti ebbe il compito di scegliere il lato giusto della moneta.
Che non era truccata, come si sostenne a lungo, ma soltanto fortunata. Mentre Tarcisio si fidava, quieto, dell’amico, l’amico disse “testa”. Fuori, la gente sulle gradinate aspettava: l’operazione si stava infatti compiendo nel ventre dello stadio. L’arbitro Tschenscher porse a Facchetti lo spicciolo da 5 franchi svizzeri, prese atto della scelta, guardò volare la moneta, la vide incastrarsi verticale in una fessura del pavimento, diede ordine di ripetere, la moneta volò e atterrò: testa. La parte giusta.
Perché noi italiani pensiamo sempre a Italia-Germania 4-3 guardandola dalla nostra parte della Luna, dimenticando che per i tedeschi quella gara fu la faccia nascosta, la zona d’ombra assoluta. Come si può uscire da una cosa del genere? Come superarla? Semplice: vincendo tutto. Campionato Europeo 1972.
La ferita tedesca dell’Azteca è tutt’altro che rimarginata, e gli azzurri sono anche i detentori del trofeo dedicato ad Henry Delaunay, ex arbitro ed ex dirigente francese, che per primo aveva avuto l’idea di un torneo continentale per rappresentative nazionali.
Ma l’Italia a quel punto è già stata eliminata, mentre la Germania aspetta l’epilogo allo stadio Heysel di Bruxelles, tristemente noto, avversaria l’Unione Sovietica allora superpotenza del pallone, vincitrice nel ’60, sconfitta in finale nel ’64 e in semifinale nel ’68. Ma è chiaro che i tedeschi stavolta non potranno perdere.
Sono formidabili. In semifinale, proprio contro il Belgio li ha lanciati una doppietta di Netzer, il biondo attaccante rock che veste solo di nero. In finalissima, nella quale segna anche il sommo Beckenbauer, è Gerd Mueller il titano: due gol. Il più grande rapinatore d’area di tutti i tempi per una squadra più forte del tempo.
Je faccio er cucchiaio
fino al 2000 si diceva “tiro alla Panenka”.
Siamo nel 1976, e la Germania Ovest dopo l’Europeo del ’72 ha vinto anche il Mondiale del ’74 in casa, battendo la memorabile Olanda. Ma stavolta il destino prende una piega diversa, cominciando dal nome dell’avversario che i tedeschi affronteranno in finale: la Cecoslovacchia. Siamo a Belgrado, Jugoslavia, davvero in un altro mondo e in un altro tempo: Germania Ovest, Cecoslovacchia e Jugoslavia non esistono nemmeno più. I tedeschi stanno vincendo per 2-0 ma i cechi rimontano, vanno sul 2-2 e ai supplementari, quindi ai calci di rigore (il regolamento è cambiato, la sfida in equilibrio al 120’ non si ripete più). Ultimi due tiri, quelli decisivi. Sbaglia il tedesco Hoeness, poi tocca ad Antonin Panenka, ex portiere d’albergo ed attaccante del Bohemians Praga dove, alla fine di ogni allenamento, sfida ai rigori il compagno e amico portiere Zdenek Hruska, come premio una bevuta di birra che Antonin non paga quasi mai.
Ed è proprio Antonin che mette a punto con Zdenek, unico depositario del segreto, quello strano tiro “da sotto” che nessuno si sogna. Panenka lo usa anche contro Sepp Maier (che si butta a sinistra mentre la palla parte morbida in orizzontale, a palombella, andando a morire in rete senza quasi muoversi), vincendo così l’Europeo: je fa er cucchiaio, anche se non lo sa.
Tra i molti modi in cui l’Italia è riuscita a perdere l’Europeo dal 1972 a oggi, quello del 1980 fu tra i più fantasiosi: organizzare la fase finale in casa propria, però con una formula diabolica. Otto finaliste, due gironi all’italiana con le prime che si sfidano in finalissima. Niente semifinali, dunque. In questo modo, gli azzurri guidati da Enzo Bearzot e reduci dal magnifico Mundial argentino del ’78, seppero farsi bloccare sullo 0-0 dal Belgio dopo avere battuto l’Inghilterra (gol di Tardelli a Torino), con altri due pareggi contro Spagna e Cecoslovacchia. Morale: Italia fuori dalla finale per differenza reti, a svantaggio del Belgio che verrà sconfitto nell’atto decisivo dalla solita Germania Ovest. Perderemo, ai rigori, anche la finale per il terzo posto.
Eroe di quel bislacco Europeo fu un centravanti asimmetrico, poderoso e bistrattato, Horst Hrubesch, autore della doppietta decisiva. Costui, simbolo dell’Amburgo, tre anni più tardi riuscirà a togliere una Coppa dei Campioni alla Juventus nella funesta finale di Atene, quando Felix Magath befferà Zoff. Curioso destino, quello di Dino e degli azzurri, favoriti nel “loro” Europeo eppure esclusi dall’epilogo, loro che due anni prima erano stati così freschi e nuovi in Argentina e che due anni dopo diventeranno campioni del mondo in Spagna, nel nostro mondiale più grande.
Fu la triste giornata del Pulpo, fu la meravigliosa intronizzazione del Re. Finale dei Campionati Europei 1984: si tennero in Francia, e davvero furono una grande storia parigina. Quel giorno, era il 27 giugno 1984, Michel Platini ebbe piena compiutezza e diventò ufficialmente il più grande calciatore francese di ogni tempo, tra i maggiori dell’intera storia del calcio. Ma, per una volta, senza fare miracoli.
La Francia, reduce dall’ottimo mondiale di Spagna ’82 dove venne eliminata in semifinale dalla Germania in modo rocambolesco, sconfisse all’ultimo atto la Spagna. Si sa che “le Roi” Platini era uno specialista dei calci di punizione, ma quello che portò in vantaggio i francesi al 57’ fu uno dei più banali e meno meritevoli in assoluto, perché si trattò soprattutto di una papera di Luis Arconada detto El Pulpo, il polpo, formidabile portiere basco della Real Sociedad per 13 anni e delle Furie Rosse: ma quella volta gli mancò un tentacolo, e si fece passare il pallone sotto la pancia.
Poi provò a ricacciarlo fuori, invano: era già entrato, l’avevano visto tutti. Il raddoppio francese fu realizzato da Bellone, origini italiane come Michel, al 90’, quando ogni cosa era ormai illuminata. Gloria comunque al Re, anche se sotto il suo trono era inciampato qualcun altro per fargli da sgabello.
La formidabile bellezza ed esattezza di quel gol, difficilissimo anche solo da immaginare. Un campione tra i più grandi della storia, Marco Van Basten, attaccante sublime ma soprattutto astro totale nella perfetta tradizione olandese, inventò un colpo al volo da posizione decentrata, una parabola miracolosa che non pochi giudicano il secondo gol più bello di tutti tempi, secondo solo allo slalom di Maradona contro l’Inghilterra al mondiale ’86. Finale di Euro 88, dunque, tra l’Olanda mai vincitrice di niente e l’Unione Sovietica di Lobanosvky, il leggendario colonnello.
L’allenatore degli Orange è Rinus Michels, padre storico del calcio totale e quel giorno risarcito in qualche modo, finalmente, da una sorte che fino ad allora aveva visto gli olandesi cambiare per sempre il calcio senza tuttavia sollevare mai un trofeo, escluse naturalmente le Coppe per club.
Si gioca a Monaco di Baviera, e incredibilmente in finale non c’è la Germania, eliminata in semifinale proprio dagli olandesi. L’azione fatata comincia con un cross dalla sinistra di Muhren, altro nome storico, una parabola lunga e tesa sulla quale Van Basten si avventa col destro, un destro al volo inconcepibile dall’umana fantasia ma non dalla sua. Il geniale Rinus si mette le mani in testa e ride: non ci crede nemmeno lui.
Sbocciò nel 1992 un incredibile fiore inatteso, cioè la Danimarca che neppure si era qualificata alla fase finale dell’Europeo. I giocatori erano già tutti in vacanza, alcuni dei quali all’estero, quando la Federcalcio danese li convocò in fretta e furia: dovevano rientrare a Copenaghen e partire per la Svezia, in sostituzione della Jugoslavia dilaniata dalla guerra civile. I combattimenti e i massacri etnici distrussero, di fatto, anche quella Nazionale.
I danesi, privi tuttavia della stella Michael Laudrup, raggiunsero da ripescati la fase finale dei Campionati Europei e lo fecero con il cuore lieve, tanto non avevano niente da perdere. Proprio questo, forse, permise loro di vincere, eliminando in semifinale l’Olanda ai rigori per poi battere la Germania in finale, con l’allenatore Vogts che al 46’ tolse Sammer, Pallone d’Oro a sorpresa due anni più tardi, denudando di fatto il centrocampo. I danesi segnarono quasi subito con Jensen in contropiede, e raddoppiarono con Vilfort che in quel giorni stava soffrendo moltissimo per la leucemia della figlia, eppure non aveva rinunciato all’Europeo. Era, quella Danimarca, una squadra non priva di calciatori scintillanti, come “l’altro Laudrup”, cioè Brian, il portiere Schmeichel e il talentuoso Flemming Povlsen. La allenava un citì dal doppio cognome, Moeller Nielsen, e dal triplo destino: escluso, ripescato e vincitore.
Impossibilissimo!
Coì rispose Antonio Matarrese, presidente della Federcalcio, a chi ipotizzava che l’Italia potesse uscire al primo turno dall’Europeo ’96.
Eravamo pur sempre i vicecampioni del mondo. Eppure la faccenda si era fatta tremendamente complicata dopo la bella vittoria contro la Russia e l’inopinata caduta contro la Repubblica Ceca, quando Sacchi cambiò a sorpresa mezza squadra. Il citì diede fiducia a Mussi, Fuser, Chiesa padre e Ravanelli, e venimmo maltrattati da un avversario in teoria inferiore. Ci saremmo giocati il turno contro i tedeschi a Manchester, quei tedeschi che si sarebbero poi aggiudicati il torneo battendo in finale proprio la Repubblica Ceca. Ci consolammo (poco) al pensiero che le due finaliste le aveva espresse il nostro crudele girone.
Non era impossibilissimo uscire, tutt’altro. L’impero vacillava, prima dei crolli è sempre così. E forse Gianfranco Zola, all’ottavo minuto contro la Germania Ovest, ebbe paura di tirare il calcio di rigore, perché è anche da questi particolari che si giudica un giocatore, eccome. Non fu solo colpa sua. In quella partita avevamo in teoria ancora tutta la vita davanti, però nulla accadde. Se non la fine dell’Italia forse già finita di Sacchi.
Fu l’Europeo del rigore, anche morale. Perché quando Silvio Berlusconi giudicherà indegna la marcatura a uomo di Gattuso su Zidane, voluta dal citì Zoff nella finale contro la Francia, il grande portiere toglierà il disturbo. Molto doloroso perdere un trofeo così importante al “golden gol” come accadde agli azzurri: per fortuna, di quell’odioso e iniquo meccanismo non resta traccia, ma intanto ci è costato carissimo.
Però il torneo 2000 lo ricordiamo soprattutto per la semifinale contro l’Olanda. Noi inferiori, e lungamente in 10 per l’espulsione di Zambrotta al 33’, loro capaci di sbagliare due rigori, uno parato da Toldo a Frank De Boer, l’altro mandato sul palo da Kluivert. Viste le circostanze, il catenaccio azzurro ritrova la sua dimensione classica fino ai calci di rigore, e qui comincia il giorno più bello nella vita sportiva di Francesco Toldo, e forse il peggiore in quella di De Boer (“sperava de morì prima?”, in senso calcistico forse sì), fermato anche nel suo secondo tiro fatale. Poi, il nostro portiere bloccherà pure l’ultimo tiro di Bosvelt. Fu l’Europeo del rigore, e naturalmente del rigore di Totti: il famoso e folle “cucchiaio” che, come sappiamo, aveva inventato Panenka molti anni prima.
Sei il Portogallo, giochi l’Europeo in casa, affronti in finale la Grecia e riesci a perdere (0-1, gol di Charisteas). Difficilmente questa impresa potrà essere superata in futuro. Tuttavia, ne esiste un’altra anche più clamorosa: sei l’Italia, puoi essere eliminata al primo turno soltanto se le tue avversarie dirette faranno 2-2 nell’ultima gara, e infatti Svezia e Danimarca fanno 2-2.
Euro 2004, il torneo del “biscotto”. Come dimenticare? Era l’Italia del Trap reduce dal mondiale asiatico, dall’arbitraggio sciagurato di Byron Moreno e dall’’inutile ampolla con l’acqua santa che il nostro tecnico teneva sempre in tasca. Oltre al biscotto, ci condannò anche un gol estremo di un giovane talento svedese, tale Zlatan Ibrahimovic di anni 22, che segnò la rete dell’uno a uno con un colpo di tacco raccolto in cielo, quasi un gesto da arti marziali. A quel punto, dovevamo soltanto sperare che danesi e svedesi non realizzassero la truffa legalizzata.
La realizzarono, e all’Italia non servì a nulla battere la Bulgaria: resta l’immagine di Antonio Cassano in lacrime, alla fine, con il suo inutile gol, peraltro molto bello. Superfluo ricordare che il colpo dello sciagurato ma prevedibilissimo 2-2 arrivò solo all’89’, quando la Svezia disegnò nel fango il risultato che ci avrebbe rimandato a casa.
In quell’Europeo 2008 anomalo, piovosissimo e freddo nella prima parte, diviso a metà come un’anguria tra Svizzera e Austria (ma la fetta più dolce toccò a Vienna, con la finale al Prater), ci mancò poco che l’Italia di Donadoni fermasse sul nascere una meraviglia, un capolavoro di squadra che nel giro di due anni avrebbe vinto i campionati europei e quelli mondiali: la Spagna. Era ancora il tempo del tiqui taca, non ossessivo però, e gli spagnoli avevano campioni come Casillas e Sergio Ramos, Puyol e Iniesta, Xavi e Fabregas, senza dimenticare Torres là davanti. A questa macchina da gioco, gli azzurri opposero nei quarti di finale una resistenza dignitosa anche se non memorabile, calati nella parte dell’avversario inferiore che la tira in lungo e poi vede che succede. Quando questa tattica funziona, novanta su cento si arriva ai rigori. E così fu anche quella volta.
Avevamo, noi italiani, il magnifico e fresco ricordo dei rigori di Berlino, due anni prima. Non lo stesso destino, purtroppo. Dal dischetto sbagliarono De Rossi e Di Natale, due colonne, mentre il colpo decisivo per la Spagna fu realizzato da Cesc Fabregas. Dopo aver camminato a lungo sul cornicione, sull’orlo di un grave rischio, gli spagnoli non si fermeranno più: in finale contro la Germania e poi in Sudafrica, due anni più tardi. Ma se invece li avessimo eliminati ai rigori, chissà quale piega avrebbe preso il loro e il nostro destino.
I muscoli di Balotelli. Questo e non altro ricordiamo dell’Europeo 2012: la “tartaruga” sul ventre di Mario, la sua posa da incredibile Hulk dopo l’ancora più incredibile doppietta alla Germania in semifinale. Sul basamento di quei due gol, Balotelli avrebbe eretto il suo monumento invisibile, la sua colonna di sabbia. Lucrando molti contratti, senza però avvicinare mai più l’estasi di quel pomeriggio. Di formidabile, Mario Balotelli aveva il tiro. Ma questo non basta per essere campioni. Lui in qualche modo cominciò e finì davvero la sua avventura proprio quel giorno, con le due reti dedicate a mamma Silvia, la sua mamma adottiva, abbracciata a bordo campo. Accadde a Varsavia. Anche Euro 2012 fu diviso in due parti, un po’ di Polonia e un po’ di Ucraina, compresa la finale a Kiev.
L’impresa di Balotelli, e la grande illusione che generò, condusse l’Italia nuovamente al cospetto della Spagna, questa volta in finale. Mal ce ne incolse: le Furie Rosse, sportivamente parlando, ci malmenarono dall’inizio alla fine: 4-0 e a casa. Che gli azzurri non valessero poi molto lo dimostra il fatto che vennero eliminati al primo turno mondiale nel 2010 e nel 2014: la finale di Euro 2012 fu dunque una specie di atto atipico, ma non incongruo. Una gloriosa e logica legnata.
Anno non poco strambo, il 2016 del pallone. Il Leicester vince la Premier League, l’Islanda raggiunge i quarti di finale dell’Europeo e il Galles addirittura la semifinale. In una stagione così atipica, è abbastanza coerente che il trofeo continentale l’abbia alzato il Portogallo, e senza nemmeno avere Cristiano Ronaldo per intero nella finale contro la Francia, padrona di casa: Payet lo abbatte dopo appena otto minuti, Ronaldo resiste ma al 25’ crolla ed esce in lacrime. Da quel momento farà quasi da secondo allenatore, dimenandosi e urlando comandi ai compagni, forse galvanizzati comunque da lui. Morale: Eder, poco più di una meteora, segna nei supplementari il gol decisivo e Cristiano solleverà la coppa zoppicando.
Noi italiani ricordiamo quell’Europeo solo per vittoria negli ottavi contro la Spagna, poi però ci saremmo arresi alla Germania nei quarti: soltanto ai rigori, va detto. Il cittì Antonio Conte riuscì a cavare il meglio dal gruppo non eccelso di cui disponeva, e ci riferiamo in particolare agli attaccanti. Qualcuno certamente ricorderà ancora gli errori di Zaza e Pellè dal dischetto contro i tedeschi, quegli assurdi saltelli e quel grottesco modo di uscire da un Europeo.
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