Strage di Cutro: la quotidiana via crucis dei parenti delle vittime, alla ricerca di una traccia dei loro cari

Strage di Cutro: la quotidiana via crucis dei parenti delle vittime, alla ricerca di una traccia dei loro cari


Una distesa di scarpe spaiate come le famiglie che il naufragio ha spezzato. E poi vestiti stracciati dal mare, una ciabatta rosa da bambina, un vecchio portafoglio pieno solo di sabbia, pezzi di barca sparpagliati lungo più di quattro chilometri di costa. Davanti il mare, che ancora nasconde i corpi di una trentina di dispersi.  

Sulla spiaggia di Steccato di Cutro domenica ha sfilato una mesta via crucis. Ma da una settimana, quotidianamente, c’è una via crucis intima e personale che si ripete giorno dopo giorno. È quella dei familiari che su quella spiaggia cercano almeno una traccia dei loro cari che il mare si è preso.  

Lalouma ci è entrata dentro quel Mediterraneo che ha finito per odiare. Completamente vestita, a grandi passi ha scavalcato le onde, quando le sono arrivate alle ginocchia, ha urlato contro quella distesa blu tutta la sua rabbia, la sua disperazione, il suo dolore. È arrivata dagli Stati Uniti per cercare la madre, ne ha ritrovato solo il corpo in una delle bare allineate al Palamilone. Una sciarpa azzurra e una scarpa le ha riconosciute sulla spiaggia. “Le ho viste nell’ultimo video che mi ha mandato, sono sue, sono sicura”, dice mentre percorre avanti e indietro la riva, stringendole al petto. È tutto quello che le resta di quella donna che non vedeva da quando era fuggita dall’Afghanistan.

Durante la traversata si erano tenute in contatto con qualche messaggio, qualche video. Improvvisamente il telefono è rimasto muto. E poi la notizia del naufragio, il viaggio folle di oltre trentadue ore per arrivare dagli Stati Uniti a Crotone. E lì il Palamilone con quella distesa di bare. Nelle foto delle vittime che la Scientifica le ha mostrato, c’era anche lei. L’ha riconosciuta subito, senza esitazione. Ma poi davanti alla bara è crollata. Le altre donne afghane si sono strette a lei. Anche fra sconosciuti si diventa famiglia in un lutto collettivo.   

Cammina sulla spiaggia, Lalouma. E con lei i familiari di vittime e dispersi. Ramzani controlla tutti gli zaini. Ha bene in mente quello che sua sorella Raza, campionessa pakistana di hockey, portava quando è partita per trovare in Europa una speranza per il figlio disabile. Ne vede uno somigliante, lo guarda con attenzione, poi si accorge che appeso c’è un ciondolo con la S. Se lo rigira fra le mani, lo accarezza e poi lo lascia lì. “Non è il suo”. Per qualcun altro potrebbe essere pezzo di memoria recuperata. Madelaine insabbiate che riportano alla mente un incubo.   

Ormai sulla spiaggia non è rimasto molto. Buste di datteri, uva passa e frutta secca gonfie d’acqua, un giubbotto di salvataggio piccolo e rosa, molte felpe. Documenti, foto e valigie chiuse sono già stati portati via. Gli uomini della Protezione civile da giorni raccolgono borse, indumenti e oggetti, che poi mettono a disposizione della Scientifica. Quelli che non sono di interesse investigativo, rimangono in una busta. Lì un ragazzo ha trovato una scarpa del fratello. È tutto quello che gli rimane di lui. Il mare non ne ha ancora restituito il corpo.

(foto: Valentina Delli Galli)

(foto: Valentina Delli Galli) 

Anche Ahmaziad cerca ancora pezzi di famiglia fra le onde. Ha perso la figlia, il genero e tre nipoti, ma solo di due dei tre piccolini ha almeno una salma da piangere. Fra le salme allineate al PalaMilone hanno trovato Hassif, il più piccolo. Aveva solo un anno e mezzo. Sabato il mare ha restituito il corpo di Akif, cinque anni, uno degli altri nipoti dispersi. 

Anziano, capelli bianchi, viso solcato da rughe che giorno dopo giorno sembrano diventare più profonde, dopo aver percorso a fatica la spiaggia si accascia e guarda il mare. Una sigaretta ammaccata fra le mani sbiancate dalla vitiligine, accanto la moglie, gli occhi asciutti per il troppo piangere, e la figlia piccola, che per i due è l’unico ponte con il mondo. Hanno tutti una vita in Germania, ma non vogliono andare via. Non ancora.

“Nessuno di noi ce la fa”, dice Abdohaillim Yagadary. Nel naufragio ha perso due nipoti, la sorella, il cognato. Solo il corpo del ragazzino di sedici anni, Muslem, è stato recuperato. “Lo vedi là? Lì devono andare, i nostri decessi sono lì”, dice indicando con il dito magro la secca su cui un pezzo di barca è rimasto incastrato.  

Sotto c’è un pezzo di poppa e di stiva. Quando il caicco si è spezzato, quella parte è andata giù. Ma non è facile tirarla fuori, né verificare cosa ci sia dentro. Il fondale è sabbioso, da giorni il mare si gonfia, arrabbiato, sollevando sabbia e detriti. Il fiume vicino, che sfocia a meno di cento metri, ha reso tutto più complicato, perché anche lui con le piogge si è riempito di fango e detriti che ancora arrivano a mare. Anche se quel rottame non è poi così al largo, giù è buio pesto. “Perché non lo tirano in secca? Perché non controllano cosa c’è dentro?”, chiede Abdohaillim in buon italiano. Adesso è in Germania, ma per anni ha cercato di ricostruirsi un’esistenza in Italia. “Qui è bello, anche la gente lo è. Ma trovare un lavoro regolare è difficilissimo, spesso neanche ti pagano”. Anni fa ha deciso di andare in Nord Europa, dove si è ricostruito una vita. Voleva che anche la sua famiglia rimasta in Aghanistan ne facesse parte. Il naufragio ha cancellato ogni sogno e progetto. “Molti non ce l’hanno fatta a uscire dalla stiva, sono rimasti bloccati dentro quando la barca è affondata”, dice convinto. “Devono andare a vedere”.

Ma le verifiche prenderanno tempo. Il golfo è immenso, le correnti insidiose, il mare capriccioso ha sparpagliato corpi lungo tutta la costa. E il relitto è grande, tecnicamente potrebbe non essere facile trainarlo fino alla spiaggia. In più, tocca aspettare valutazioni e autorizzazioni del magistrato. 

E come spiegarlo ai familiari di chi ancora non si trova, che ogni giorni si consumano gli occhi guardando quel pezzo di mare? Come far capire che ci vorrà tempo perché il lavoro è lungo e complicato? Loro sanno solo che sono stanchi di aspettare. Di avere il nulla osta per riportare a abitazione i decessi e dare loro sepoltura degna. Di avere le autorizzazioni per abbracciare i vivi, risposte chiare e tempi certi per portarli via con sé. Di guardare il mare, in attesa di chi non c’è ancora.  

Quando ormai è quasi sera, improvvisamente scatta l’allarme. Affiora qualcosa, potrebbe essere un corpo, i sommozzatori dei vigili del fuoco in pochi minuti sono in acqua. Ma è solo una rosa, con un pezzo di legno vicino. Un inganno. Ahmaziad faticosamente si inginocchia. Ormai è sera, il buio cala rapido e nasconde la spiaggia. Mesti, i familiari tornano a Crotone. In attesa di tornare domani a pregare il Mediterraneo perché restituisca quelli che si è preso.  



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[email protected] (Redazione Repubblica.it) , 2023-03-06 09:29:33 ,www.repubblica.it

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