Quelle tre lettere — una erre, una a e una i — le ho viste presto, in foto, da bambino. Non ricordo il momento in cui mia madre mi ha detto che mio padre era deceduto. L’ho saputo, l’ho capito, ma non rammento come e quando. Ricordo però che mi mostrò le sue immagini. Era al Tour de France per il suo lavoro di radiocronista, quando il ciclismo era polvere e fatica, e aveva una tuta addosso, come un operaio. Su quella divisa, che io immaginai, a ragione, essere beige, c’era una sola scritta, all’altezza del cuore: Rai. Lo immaginavo con quella tuta, mentre al microfono della radio annunciava la vittoria di Bartali al Tour, mentre raccontava agli italiani i funerali del grande Torino, mentre progettava «La Domenica sportiva», che andò in onda il primo giorno di trasmissioni, settanta anni fa.
Come ha ricordato Aldo Grasso nel suo articolo, Vittorio Veltroni è stato il primo direttore del telegiornale. Lo chiamarono nel 1953 dopo che, nelle trasmissioni sperimentali, qualcuno aveva mandato in onda un filmato sui funerali di Stalin che però aveva un piccolo difetto: si vedeva Stalin in primo piano mentre portava sulle spalle una bara che intuitivamente non doveva contenerlo. Aveva 34 anni, quando fu nominato. A 28 lo avevano chiamato a dirigere la redazione radiocronache. In quegli anni, i primi del dopoguerra, si formò una squadra composta da Nando Martellini, Lello Bersani, Sergio Zavoli, Enrico Ameri, Pia Moretti, Aldo Salvo, Paolo Rosi, Massimo Rendina, Tito Stagno… e poi Ettore Scola, Alberto Sordi, Ugo Gregoretti. Diedero vita, con Zavattini, al neorealismo radiofonico tradotto in documentari, e misero in onda la comicità surreale del Teatrino di Alberto Sordi con Mario Pio e il Conte Claro.
Mio padre nel 1951 inventò la Catena della solidarietà, un progenitore di Telethon, interrompendo le trasmissioni della radio per annunciare che il paese si sarebbe mobilitato in una gara di generosità per sostenere attivamente il Polesine alluvionato. Fu una valanga di solidarietà, meravigliosa in quell’Italia povera e semidistrutta. Sordi ne darà conto a suo modo, in una memorabile scena di uno dei suoi film più divertenti, Accadde al penitenziario, in cui viene arrestato, ubriaco, con l’accusa di aver cooperato al furto di pezze di stoffa. Il giorno dopo, interrogato, apprende che a fargli le domande è il vice e rivendica insistentemente che venga invece chiamato il commissario. Alla fine, come dimostrazione che lui non può essere accusato di nulla, mostra la sua mano vuota, ci batte sopra l’altra e dice, con lo sguardo allucinato: «Vuol sapere perché sono innocente? Ecco qui. Ho dato il cappotto al Polesine».
Mio padre, in quegli anni, fece venire a Roma un ragazzo che stava in America e si chiamava Michael Bongiorno. Gli affidò una rubrica che si intitolava «Arrivi e partenze», e poi lo convinse a darsi un nome più semplice, Mike, e a cimentarsi con il quiz. Quando mio padre morì, a 37 anni, per una leucemia fulminante, mia madre Ivanka fu assunta al suo posto con la qualifica di semplice funzionaria. Per me la Rai diventò così un grande palazzo di Via Del Babuino, dove oggi c’è l’Hotel de Russie, e poi quello di Viale Mazzini, di cui in famiglia vivemmo la nascita e dove lei ha lavorato fino alla pensione.
Il mio primo ricordo infantile è legato sempre alla Rai. È un giorno dell’estate del 1960, con le finestre del salone di casa aperte su una serata romana meravigliosa. Un uomo con degli anacronistici occhiali da sole imbocca una curva mentre un volo di piccioni ingombra lo schermo del televisore. Era un CGE, di quelli che si accendevano con il trasformatore.E poi l’esperienza comune della generazione della televisione e della Rai, che in realtà erano la stessa cosa: il Musichiere, il Maestro Manzi, la posta di Cutolo, Giovanna la nonna del Corsaro Nero, Padre Mariano con la sua barba e il suo rassicurante sorriso, l’andare a letto dopo Carosello, Le avventure della squadra di stoppa, Davide Copperfield, Il Giornalino di Gian Burrasca con Rita Pavone diretta da Lina Wertmuller e musicata da Nino Rota, Alta Pressione, Campanile Sera, Studio Uno e la sua Biblioteca con il Quartetto Cetra, Bonanza e Perry Mason, il Dottor Kildare e Zorro con il sergente Garcia, il film del martedì, la nascita del secondo canale, il Processo alla tappa di Sergio Zavoli…
Attorno al sessantotto la Rai, la tanto bistrattata Rai di Bernabei, fu Tv7, Il telegiornale delle 13.30 ideato da Fabiano Fabiani e condotto da Piero Angela o Andrea Barbato. Alla radio fu il memorabile Per voi giovani di Arbore e , per la musica, Bandiera gialla di Gianni Boncompagni. Sospesa costantemente tra il suo compito di voce ufficiale, il suo ruolo istituzionale e la sua naturale pulsione a interpretare il nuovo che avanzava nella società, la Rai, per me, è stata fondamentale nella modernizzazione italiana, nella crescita del sapere e del senso critico, persino nella secolarizzazione del paese. Grandi conquiste civili, come il divorzio e l’aborto, non sarebbero state possibili senza il discorso culturale che la Rai ha fatto, con coraggio, lungo la parte di Novecento che ha occupato.
Quando rivedo le immagini che gli operatori del telegiornale girarono la mattina in cui la bara di mio padre uscì dal portone di casa, in una calda giornata di sole del luglio 1956 e le scorro, andando avanti e indietro nella visione, ritrovo, tra i partecipanti a quel corteo malinconico, molti volti dei protagonisti futuri della storia della Rai. Erano allora dei ragazzi, avevano sofferto, cercavano la luce dopo il buio del tunnel.Non so se volessero cambiare il mondo, ma certo volevano cambiare il modo di raccontarlo. E credo ci siano riusciti.
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2024-01-02 22:42:50 ,