Arrivano nuovi dati a sostegno di una tassa sui patrimoni dei super ricchi. L’introduzione di un’imposta patrimoniale sullo 0,5% delle famiglie più ricche permetterebbe a ogni Paese di raccogliere l’equivalente del 7% del proprio budget di spesa, in media. In totale, nel mondo, con un’aliquota compresa tra l’1,7% e il 3,5%, si riuscirebbero così a raccogliere più di 2mila miliardi di dollari.
Chi non ci crede, può consultare lo studio originale sul sito di chi lo propone, la Tax Justice Network, associazione che si batte per una tassa sui super ricchi. Chi non ama i numeri o non ha tempo di fare i conti, basta che immagini che quei dollari equivalgono al doppio dell’importo necessario ogni anno a sovvenzionare i Paesi in via di sviluppo per il clima. Con l’avvicinarsi dei negoziati della Cop 29, la conferenza sul clima delle Nazioni Unite dove il tema sarà al centro del confronto, gli attivisti non mancano di sottolinearlo, ma la questione non è importante solo per chi siede a quel tavolo. Oggi un quarto della ricchezza presente sulla Terra è in mano allo 0,5% dei suoi abitanti. Poi c’è una 50% di persone che si divide il 3% e i restanti, galleggiano, tirando avanti con fatica. È un disequilibrio che riguarda tutti, quindi, e secondo Tax Justice Network, rende le economie insicure ed è direttamente collegata a una minore produttività economica
Una soluzione made in Spagna
Chi volesse seguire questo suggerimento, non dovrebbe inventare nulla da capo. Basterebbe copiare spudoratamente l’esempio della tassa patrimoniale “featherlight” spagnola. Sotto il primo ministro socialista Pedro Sánchez, infatti, questo Paese l’ha introdotta già alla fine del 2022 come temporanea e “di solidarietà”, limitandola ai cittadini con una ricchezza netta superiore a 3 milioni di euro (circa lo 0,5% delle famiglie).
Lo studio di Tax Justice Network utilizza proprio questi numeri, escludendo alcune esenzioni (tra cui quelle per le azioni di società quotate in borsa, la proprietà intellettuale e industriale e alcuni beni di alto valore come barche e aerei) e ribadendo la totale insensatezza del trattamento a due livelli della ricchezza raccolta e della ricchezza guadagnata. “La ricchezza raccolta attraverso i dividendi, le plusvalenze e gli affitti derivanti dal possesso di beni è tipicamente tassata con aliquote molto più basse rispetto alla ricchezza guadagnata con stipendi ottenuti lavorando – spiega -. Allo stesso tempo, la ricchezza raccolta cresce in genere più velocemente di quella guadagnata”. Questo porterebbe al fatto che solo la metà della ricchezza creata ogni anno nel mondo va alle persone che si guadagnano da vivere, il resto viene raccolto sotto forma di affitti, interessi, dividendi e guadagni in conto capitale.
Di fronte ai numeri e all’evidenza dell’ingiustizia economica in atto, cresce il numero di Paesi che sta pensando di aumentare le tasse sugli ultra ricchi. Sotto la presidenza brasiliana del leader della sinistra Luiz Inácio Lula da Silva, il G20, un riunione che mette insieme 20 delle più importanti economie mondiali, stava già considerando di applicare una tassa minima unitario sui 3.000 miliardari del mondo. E Francia, Germania, Spagna e Sudafrica da tempo sostengono questa proposta. Ora ci sono anche numeri a sostegno della possibile efficacia.
C’è chi dice no
La proposta messa in evidenza dalla Tax Justice Network a molti sembra essere un’opportunità per “raddrizzare il mondo”, la migliore di questi tempi per intervenire su disuguaglianze evidenti e ormai difficili da nascondere. Eppure esiste una minoranza di Paesi ricchi che sembra ancora titubante all’idea di una solida convenzione quadro sulla fiscalità. Spesso non si tratta di un “no” netto, ma il loro esitare silenzioso probabilmente allungherà di anni la messa a terra dell’idea, anche se già piuttosto chiara e definita.
Una delle paure più diffuse tra i contrari alla tassa per super ricchi, è quella di innescare con questa tassa un trasferimento di massa di quella fetta di contributori più ricercata per il proprio bilancio nazionale. Gli attivisti di Tax Justice Network hanno trovato numeri anche per smentire questa ipotesi. Quelli di Norvegia, Svezia e Danimarca dove, dopo le riforme dell’imposta sul patrimonio, solo lo 0,01% delle famiglie più ricche si è trasferito. Ma anche quelli della Gran Bretagna, dove si stima che le modifiche apportate nel 2017 alle norme sui ricchi non residenti abbiano portato a un tasso di migrazione pari solo allo 0,02%.