The Brutalist: l’architettura diventa il riflesso di un’anima spezzata
The Brutalist è un film totalizzante e dal retrogusto vintage, che si ispira a tante storie vere ma non è mai realmente evento.
Brady Corbet, regista e attore statunitense, sceglie di girarlo in VistaVision e di proiettarlo nelle sale in 70mm. Il VistaVision, sviluppato negli anni ’50 dalla Paramount, è il formato ideale per catturare le diverse angolazioni panoramiche e i dettagli architettonici. Le geometrie monumentali degli edifici e le ampie superfici assumono una presenza tangibile, amplificata poi dalla proiezione in 70mm, che restituisce ogni dettaglio strutturale.
Tre ore e mezzo di cinema virtuosistico e opulento, in cui si racconta la storia di László Tóth, architetto ebreo ungherese che, sopravvissuto ai lager nazisti, riesce a emigrare alla fine della guerra negli Stati Uniti, lasciando in Ungheria la moglie Erzsébet e la nipote Zsófia.
The Brutalist: l’architettura diventa il riflesso di un’anima spezzata

Questa Odissea contemporanea inizia con il viaggio in nave del protagonista e il suo arrivo a New York, dove lo accoglie una Statua della Libertà girata al contrario, come percepita dal punto di vista soggettivo di László e che anticipa già il capovolgimento del sogno americano.
The Brutalist è stato presentato in anteprima mondiale all’81ª far mostra di internazionale d’arte cinematografica di Venezia, candidato a ben dieci premi Oscar e premiato con tre Golden Globe.
Attraverso la lente del brutalismo
Il brutalismo è uno stile architettonico che ha avuto il suo apice tra gli anni ’50 – ’70 e che riprende il nome dal francese béton brut, vale a dire “cemento grezzo”, materiale di elezione per la costruzione degli edifici.
Con le sue forme geometriche e spoglie, il brutalismo è stato spesso associato a una visione utopica della società. Ed è proprio per questo motivo che il regista sceglie questa corrente architettonica come lente di ingrandimento su una realtà cruda e fagocitante, disseminata di contraddizioni.
Sul grande schermo entriamo nel merito dei tre decenni di vita dell’architetto László. Gli inizi in America sono difficili, per le necessità economiche e l’impossibilità di poter portare con séi suoi affetti più cari, ma grazie al cugino Attila, a László viene commissionata la ristrutturazione di una libreria dal milionario mecenate Harrison Lee Van Buren.

Il lavoro di Tóth porta prestigio a Van Buren, che decide di affidargli un progetto imponente: la costruzione di un centro culturale e luogo di aggregazione, compossto da una biblioteca pubblica, una palestra e una cappella. Durante i lavori Tóth incontra molti ostacoli, per le diffidenze verso gli stranieri e per i continui tentativi di trasformare il suo progetto originario, ma pur di difendere strenuamente il suo lavoro, arriva a investire parte dei suoi profitti.
Una narrazione incalzante, a cui ci si appassiona fin da subito, ma che scopriamo essere di finzione. La storia è ispirata, infatti, a diverse persone, tra cui la madre del regista e gli architetti: Marcel Breuer, Louis Kahn e Paul Rudolph.
Si tratta comunque di un personaggio delineato così intimamente e vivo nelle sue contraddizioni, come negli eccessi, nelle debolezze e nell’incapacità di recuperare la propria umanità dopo l’Olocausto, che sembra davvero di assistere a fatti realmente accaduti. Questa sensazione è per gran parte merito della splendida interpretazione di Adrien Brody, nella sua miglior prova attoriale, insieme al ruolo ne Il Pianista.
Il sogno americano, tra illusione e sopraffazione
Le finte riprese di un’esibizione dell’architetto alla Biennale di Venezia sul finale, pur apparendo leggermente forzate, sono utili a sottolineare l’importanza della finzione per raccontare un momento storico, in cui la dimensione del reale e quella della finzione si intrecciano senza soluzione di continuità, lasciandoci con un’irresistibile bramosia di storie vere.
Lo stile di vita americano appare inizialmente come un eden, dove ogni desiderio sembra alla portata di mano, un luogo dove la fortuna e la rapidità dell’azione diventano i mezzi per raggiungere qualsiasi traguardo. Tuttavia, questa facciata di successo e opportunità si rivela ben presto una trappola: una gabbia in cui chi lavora e produce finisce per essere sempre sotto il giogo di un padrone, che detiene il potere e ordina secondo i suoi interessi. Il sogno americano, lontano dall’essere un ideale di libertà, si trasforma in una costante lotta per mantenere il proprio posto, senza mai raggiungere una vera realizzazione personale.

The Brutalist: l’architettura diventa il riflesso di un’anima spezzata
La sopraffazione assume addirittura i connotati di una violenza sessuale, tratteggiando la confusione etica di una società fondata sull’individualismo.
Il film cattura con forza la dissonanza giusto dei nostri tempi e lo smarrimento esistenziale delle sue vittime, soffermandosi sui sentimenti contrastanti di László. Ora entusiasta, disilluso, violato, soggiogato, fragile, brillante, ma sempre estremamente vero.
The Brutalist è un’opera realizzata con grande maestria e senso estetico, dal piano sequenza iniziale dell’arrivo a New York alla seconda parte dal respiro quasi western, in cui si avvertono le influenze de Il Petroliere e The Master di Paul Thomas Anderson.
Anche la fotografia, che oscilla tra il realismo e l’bellezza classicista, rafforza l’intreccio tra finzione e realtà, specchio delle opere architettoniche del protagonista. Queste, ispirate appunto al brutalismo, si fondano sulla geometria di imponenti blocchi di cemento, dove la materia si trasforma, dando vita a una nuova dimensione visiva.
Una visione assolutamente consigliata, per cui si può deliziarsi anche dell’intervallo amarcord di 15 minuti!

The Brutalist: l’architettura diventa il riflesso di un’anima spezzata
Source link
di Veronica Cirigliano
www.2duerighe.com
2025-02-24 11:05:00 ,