Vent’anni fa, dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre a New York e Washington, il regime dei talebani che allora governava l’Afghanistan pagò molto caro il suo rifiuto a consegnare agli americani Osama bin Laden, il leader di al Qaida. Bin Laden era a capo del gruppo che aveva organizzato e compiuto i più gravi attentati della storia degli Stati Uniti, che avevano ucciso quasi 3mila persone, e da diversi anni aveva trovato protezione in Afghanistan grazie al regime dei talebani. Il governo americano, allora guidato dal Repubblicano George W. Bush, decise di rispondere con la forza: invase l’Afghanistan, provò a catturare bin Laden che però riuscì a scappare in Pakistan (fu ucciso solo dieci anni dopo in un’operazione militare nella città pakistana di Abbottabad), e rovesciò il regime dei talebani.
La questione oggi è capire se i talebani offriranno nuovamente ospitalità e protezione ad al Qaida, gruppo con il quale hanno continuato a mantenere rapporti, o se decideranno che i rischi sono troppo alti.
Vent’anni fa al Qaida era una presenza importante in Afghanistan: la sua leadership era lì, e lì erano stati messi in piedi molti campi di addestramento per i combattenti jihadisti. Fu dall’Afghanistan che bin Laden organizzò non solo gli attentati alle Torri Gemelle di New York nel 2001, ma anche quelli alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998 (che fecero più di 200 morti), e quello al cacciatorpediniere statunitense USS Cole ormeggiato nel porto di Aden, nello Yemen, due anni dopo (che fece 17 morti).
Al Qaida era stata fondata proprio in Afghanistan. Era nata tra i mujaheddin e i combattenti arabi ispirati dal jihad (la guerra santa) che negli anni Ottanta avevano combattuto contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Dopo essersi spostata in Sudan per qualche anno, la leadership del gruppo era tornata in Afghanistan nel 1996, con l’arrivo al potere dei talebani, e ci era rimasta fino alla fine del 2001, quando fu costretta a nascondersi o scappare oltre confine (spesso in Pakistan) per fuggire dagli americani.
Gli attentati del 2001 furono quindi gli ultimi di al Qaida pianificati dall’Afghanistan (gli attentati di Londra del 2005 furono diretti dai leader di al Qaida in Pakistan).
Negli ultimi due decenni al Qaida è stata assai indebolita, per lo più dagli attacchi aerei mirati degli americani, e oggi la sua capacità di organizzare attentati è certamente minore rispetto a quella del 2001. L’organizzazione però non è sparita, e soprattutto non se n’è mai andata dall’Afghanistan.
Un rapporto dell’ONU pubblicato un mese fa, e basato sulle informazioni di intelligence raccolte da diversi paesi, diceva che al Qaida «è presente in almeno 15 province afghane», e aggiungeva che al Qaida nel subcontinente indiano, gruppo affiliato a quello principale, «opera sotto la protezione dei talebani nelle province [afghane] di Kandahar, Helmand e Nimruz».
Un documento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dello scorso anno parlava di contatti costanti tra i due gruppi anche durante i colloqui di pace a Doha, quelli che nel febbraio 2020 culminarono con l’accordo tra i talebani e l’amministrazione americana di Donald Trump e che sancivano il ritiro definitivo delle truppe statunitensi dall’Afghanistan (ritiro poi realizzato nei fatti da Joe Biden).
Il documento diceva che durante i colloqui i talebani si erano consultati spesso con al Qaida, e che le «avevano dato garanzie che avrebbero onorato i loro legami storici». Diceva inoltre che centinaia di combattenti di al Qaida e un grosso pezzo della sua leadership, tra cui Ayman al Zawahiri, nuovo capo del gruppo dopo l’uccisione di bin Laden, si trovavano ancora in Afghanistan. E sottolineava come «i rapporti tra talebani, specialmente tra la Rete Haqqani [un gruppo armato afghano alleato dei talebani e con base in Pakistan] e al Qaida erano rimasti stretti, basati sull’amicizia, su una storia di battaglie condivise, di simpatie ideologiche e matrimoni tra i due gruppi».
Non sono solo i documenti dell’ONU a sostenere che il rapporto tra talebani e al Qaida non si è mai interrotto. Alcuni analisti, tra cui Thomas Joscelyn del sito specializzato Long War Journal, sono andati anche oltre: hanno infatti sostenuto che al Qaida abbia combattuto assieme ai talebani per la riconquista dell’Afghanistan: «Al Qaida è rimasta lì tutto il tempo. Sono fratelli di sangue. [La conquista di Kabul] è stata anche una vittoria di al Qaida», ha scritto Joscelyn, sottolineando come la caduta della capitale sia stata celebrata da molti siti collegati all’organizzazione terroristica.
Il punto però è capire ora che intenzioni abbiano i talebani per il futuro, soprattutto perché negli ultimi tre giorni hanno cercato di mostrarsi con una faccia più presentabile al mondo, in cerca di legittimazione.
Lo si è visto in maniera chiara durante la conferenza stampa di martedì, la prima tenuta dai talebani dopo la conquista di Kabul, quando, rispondendo a una domanda su al Qaida, il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid ha detto che «il territorio dell’Afghanistan non sarà usato contro nessuno. Possiamo rassicurare la comunità internazionale di questo». E lo si era già visto durante i colloqui di pace a Doha lo scorso anno, durante i quali i talebani avevano promesso agli americani che non avrebbero più permesso ad al Qaida di usare il territorio afghano per organizzare attentati contro l’Occidente.
Sulle intenzioni reali dei talebani non c’è accordo tra gli esperti, anche perché c’è molto scetticismo verso il nuovo regime e le sue promesse di agire con maggiore moderazione rispetto al passato.
Per semplificare: c’è chi sostiene che i talebani non faranno lo stesso errore di vent’anni fa, e non daranno di nuovo protezione ad al Qaida; chi sostiene che l’Afghanistan tornerà a essere un rifugio per il gruppo terroristico e che i rapporti esistenti sono troppo forti per essere interrotti; e chi sostiene che vedremo una via di mezzo tra le precedenti ipotesi.
Chi appartiene al primo gruppo sostiene che sia poco probabile che i talebani forniranno rifugio a gruppi terroristici come al Qaida e lo Stato Islamico, per evitare che si ripetano gli eventi del 2001 che costarono loro vent’anni di governo e presenza militare straniera nel paese.
Secondo John Sawers, ex capo dell’agenzia di intelligence britannica MI6, i talebani non useranno la forza contro al Qaida e gli altri gruppi terroristici in Afghanistan, ma allo stesso tempo non permetteranno che il paese si trasformi nuovamente in una base del terrorismo internazionale, per evitare di attirare l’ostilità del mondo. Dello stesso parere è anche Jean-Pierre Filiu, studioso di jihadismo all’università Sciences Po a Parigi, che ha detto che i talebani «non vorranno compiere lo stesso errore strategico del passato, cioè dare pieno e cieco appoggio ad al Qaida».
Chi appartiene al secondo gruppo, come l’analista Thomas Joscelyn, sostiene invece che al Qaida riuscirà a trovare di nuovo una protezione sotto i talebani in Afghanistan, e che potrà quindi riorganizzarsi e diventare più forte.
«Il giorno della caduta di Kabul per mano dei talebani è stato senza dubbio il più significativo per al Qaida dall’11 settembre 2001», ha scritto Charles Lister, esperto di gruppi jihadisti. Secondo Lister, vedere i talebani entrare a Kabul «è un sogno diventato realtà» per al Qaida, che «per la prima volta da anni avrà non solo spazio per respirare, ma anche un “paradiso” incredibilmente significativo in cui ricostruirsi»; e ha aggiunto che molto probabilmente i leader talebani oggi all’estero, come per esempio Sayf al Adel, vice di Zawahiri, proveranno ora a tornare in Afghanistan.
La terza ipotesi, una specie di via intermedia tra le prime due, l’ha espressa tra gli altri Aymenn Jawad al Tamimi, esperto di sicurezza che negli ultimi anni si è occupato molto di Stato Islamico, e che è analista per l’università americana George Washington.
Tamimi ha detto che molto probabilmente l’appoggio dei talebani ad al Qaida sarà più nascosto rispetto al passato, più prudente: «Non penso che permetteranno [ad al Qaida] di aprire centri di addestramento che potrebbero essere individuati dall’estero e che potrebbero diventare obiettivo di bombardamenti». Secondo Tamini, i talebani potrebbero fare qualcosa di simile a quello che ha fatto l’Iran negli ultimi anni: «mantenere alcuni leader di al Qaida agli arresti domiciliari e allo stesso tempo dare loro sufficiente libertà per esempio per comunicare con gli alleati».
Tutte le tre ipotesi potrebbero verificarsi in futuro e non è facile fare una previsione sicura su quello che accadrà.
Di certo c’è comunque che un possibile rafforzamento di al Qaida preoccupa non poco l’Occidente e che funzionari del governo americano hanno già detto di dover rivedere le previsioni fatte in precedenza sui tempi di ricostituzione e consolidamento della leadership del gruppo. Per molto tempo l’intelligence statunitense aveva infatti previsto che questi tempi sarebbero stati tra i 18 mesi e i due anni dal ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan: forse stime troppo ottimistiche, visti gli ultimi sviluppi.
Non solo i talebani hanno completato la conquista dell’Afghanistan in tempi estremamente più rapidi di quelli previsti dall’intelligence americana, e non solo l’esercito afghano è collassato con una velocità quasi stupefacente. Nelle ultime settimane, ha detto Douglas London, ex funzionario della CIA con grande esperienza in Medio Oriente e Asia meridionale, al Qaida ha sfruttato il ritiro degli americani per riportare in Afghanistan alcuni suoi membri che si erano rifugiati in Iran, e centinaia di importanti qaidisti rinchiusi nelle prigioni afghane sono stati liberati (gli assalti alle carceri sono sempre stati cruciali per la causa jihadista). Allo stesso tempo la capacità delle intelligence occidentali di raccogliere informazioni è diminuita radicalmente, in seguito al ritiro di tutti i soldati e all’evacuazione del personale diplomatico.
Quello di una nuova ascesa di al Qaida era un rischio di cui l’amministrazione americana era comunque a conoscenza, e su cui si erano espressi sia il dipartimento della Difesa che il direttore della CIA, William Burns. L’impressione è che quello che succederà in futuro dipenderà per lo più dalla volontà dei talebani.