Ultracorpi – l’invasione continua di Abel Ferrara è uno dei film più strani, ma anche più audaci, di sicuro tra i più sottovalutati. Questo per la sua essenza di remake, parola che già all’epoca sapeva di qualcosa di sporco, di scarsamente originale e poco significativo. Eppure, a trent’anni esatti dall’arrivo in sala, questo film cupo, terrificante, ammaliante per la sua estetica, rimane uno di quei remake meritevoli di rispetto, di considerazione, in virtù di una semantica, oltre che di una potenza espressiva, di assoluto interesse.
Ferrara e quella scelta di un body-horror fuori tempo massimo
Ultracorpi a prima vista pareva un’opera non necessaria, se non addirittura inutile, visto che il romanzo di Jack Finney era già stato portato due volte sul grande schermo: dal grande Don Siegel nel 1956 e dall’altrettanto interessante versione di Kaufman nel 1978. Entrambi i suoi predecessori avevano avuto un plauso di critica e pubblico unanime, quei due film erano (sono) considerati capolavori. Ma allora perché il regista maledetto per eccellenza decise di far arrivare a Cannes un altro body horror, sottogenere che ormai pareva aver detto tutto ciò che poteva dire, e che era stato dalla fine degli anni ‘70 capace di trionfare in lungo e in largo? La Cosa del grande John Carpenter, La Mosca di David Cronenberg avevano fatto sì che il corpo umano diventasse uno scrigno degli orrori in grado di rivelare le contraddizioni della nostra natura e società, creando un filone che però all’epoca pareva esauritosi.
Ultracorpi rimane ad oggi in realtà uno dei film più coraggiosi mai fatti da Abel Ferrara, non solo per i due scomodi precedenti con cui fare i conti, ma perché la sceneggiatura di Stuart Gordon, Dennis Paoli e Nicholas St. John si staccò dal romanzo di Finney, creò un iter che se da un certo punto di vista pareva forse non cambiare poi molto, in realtà cambiava tutto. Questo soprattutto per quello che riguardava la sua intenzione di parlarci del rapporto tra individuo e società, controllo delle masse, con una visione alquanto pessimista dell’America di quegli anni. Ultracorpi al contrario dei due predecessori, non è ambientato in quella California terra dei sogni, nossignore, stavolta Abel Ferrara ci porta in Alabama, non tra persone comuni dentro ad una città, anzi prima ancora dentro ad una base militare: Fort Daly, lì dove uno penserebbe che invece può trovare il rifugio ideale da una probabile invasione aliena. Altro fatto fondamentale, riguarda il modo in cui Abel Ferrara sceglie il protagonista, anzi la protagonista: Marty (Gabrielle Anwar).
Marty è una ragazza ribelle, anticonformista, simbolo di un protagonismo horror femminista tipico di quegli anni. Con la matrigna Carol (Meg Tilly) e il fratello Andy, deve seguire il padre Steve (Terry Kinney), agente dell’Agenzia per l’Ambiente, chiamato nella base per fare dei test su alcune sostanze chimiche, che avrebbero avuto un impatto sull’ambiente e forse sui cittadini della zona. Nel giro di poco tempo Marty e la sua famiglia si renderanno conto che qualcosa non quadra, visto che sempre più cittadini (tra cui Carol) appaiono come affetti da una sorta di mancanza di emozioni, rassicuranti ma in realtà spaventosi nella loro ripetitività mnemonica. Scopriranno infine che è in atto un’invasione aliena, da parte di una forma di vita parassita extraterrestre, che sostituisce gli umani. Ultracorpi ci mostra subito un conflitto generazionale in atto, e lo connette alla distruzione della famiglia cinematografica classica. Il nucleo familiare di Marty appare assolutamente disgregato, disunito, anarchico e problematico, con lei molto isolata.
Ultracorpi già in questo mostra un’enorme audacia da parte di Ferrara, che fin dall’inizio usa in modo semplicemente magistrale l’oscurità, soprattutto negli interni e fa della civiltà umana un gigantesco labirinto fatto di tenebre e pericoli, in cui la minaccia aliena arriva naturalmente quando si dorme, quando i baccelli extraterrestri si insinuano nei corpi umani, creando copie senz’anima. Ma è un terrore che si fa palese nella trasfigurazione fisica che la collettività abbraccia mentre indica il singolo, quell’urlo che ritorna per identificare i diversi dalla norma aliena. Anche in virtù di questo, Ultracorpi va oltre ciò che erano state le pellicole di Siegel e Kaufman. La tensione, la violenza e l’orrore sono molto più diretti e meno psicologici, vi sono poi chiarissime connessioni al genere zombie, che Romero aveva reso da tempo popolarissimo, guarda caso anche lui ponendosi in modo conflittuale rispetto alla società americana e al suo rapporto con i singoli. Ma questa conflittualità, Ferrara la spinge verso confini inediti, in cui si abbraccia l’antimilitarismo, l’anticonformismo, mentre ci mostra l’iter inarrestabile di un’apocalisse.
Un film a metà tra antimilitarismo e controcultura
Il film del 1956 era una metafora non solo del maccartismo, che aveva assediato l’America degli anni ’50, ma anche dell’incubo comunista. Nel 1978 invece era stata celebrata sia la sconfitta della generazione del ’68, quella che voleva una libertà senza confini contro il capitalismo imperialista, sia del suo ambiente naturale: l’università, che era stata sconfitta. L’America del 1993 di cui ci parlava Abel Ferrara invece, è reduce della vittoria nella Guerra del Golfo, crede sempre di più nell’individualismo ma la tecnologia di massa diventa in realtà porta verso l’omologazione e il diktat imposto da una sola cultura dominante, di cui proprio la base militare è una metafora riuscitissima, così come quei baccelli paludosi, che fanno sparire l’autenticità nel segreto più efficiente. Ultracorpi, con un montaggio così spezzettato, con continui omaggi anche al cinema di Alfred Hitchcock, ai racconti dell’orrore classico, anche letterario di Stevenson a Lovecraft, crede in una visione apocalittica di una civiltà sull’orlo di frantumarsi.
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di Giulio Zoppello www.wired.it 2024-01-14 05:40:00 ,