Andare per boschi per conoscere meglio il patrimonio culturale italiano, o per capire la trasformazione impressa dalle attività dell’uomo. O ancora, per interrogarsi su come proteggerli e non sprecare le loro enormi risorse, grazie a un manuale che descrive le caratteristiche del bosco che attraversiamo. Il libro di Mauro Agnoletti Atlante dei boschi italiani (Laterza, euro 20,90) è uno di quei testi multiuso che si prestano a stare nello zaino, usati come guida durante un’escursione, e sul comodino per una lettura meditata. Non ultimo, l’Atlante dei boschi italiani è un libro scientifico, utile per approfondire i temi della deforestazione e della salvaguardia della biodiversità. Proprio da questi argomenti parte la chiacchierata con l’autore, professore dell’Università di Firenze e titolare della cattedra Unesco per i paesaggi rurali.
Conoscere la storia dei boschi italiani aiuta a preservarli?
“L’editore voleva un libro che attraverso schede sintetiche ricostruisse il nostro paesaggio forestale, che è, essenzialmente, una componente del paesaggio culturale che caratterizza l’Italia. Ci sono boschi di tutte le regioni, descritti in breve ma rappresentativi della diversità del patrimonio boschivo del nostro Paese. Abbiamo moltissimi boschi, ma ho scelto quelli che nella loro unicità diano esempio di come, contrariamente al sentire comune, si tratti di un paesaggio culturale, modificato dall’uomo come quello agricolo. Nei nostri boschi si può ricostruire la cultura nazionale e si può ammirare una biodiversità enorme, prodotto proprio delle interrelazioni tra ambiente boschivo e agricolo. Certo, se paragoniamo la nostra biodiversità a quella dell’Amazzonia siamo perdenti, ma la nostra è una diversità di ambienti, in cui si alternano radure del pascolo, alberi alti, bosco ceduo, o macchia mediterranea”.
All’inizio del libro due cartine fanno balzare agli occhi quanto sono aumentati i boschi in Italia negli ultimi anni. Stiamo traendo beneficio da questo incremento?
“Dal 1936 al 2018 la superficie boschiva è in pratica raddoppiata, a causa dell’abbandono delle aree agricole. Tuttavia, oggi gestiamo soltanto un terzo dei boschi, fra i quali anche i boschi definiti come secondari. Si tratta delle nuove aree forestali sviluppatesi su terreni ex coltivati, ma che sono state influenzate dalle colture precedenti l’abbandono. Proprio per questo, nel libro propongo per i boschi italiani il termine “boschi culturali”, poiché non sono di origine “naturale”, non possono esserlo. La dicitura di boschi culturali era già presente nella Conferenza ministeriale paneuropea sulla protezione delle foreste in Europa (MCPFE) nel 2003, che aveva affermato l’importanza del valore sociale e culturale dei boschi, definendolo come il terzo pilastro della gestione forestale sostenibile, accanto al pilastro ecologico e a quello economico. Nel 2014 UNESCO e CBD organizzarono un incontro sul tema della diversità bioculturale, a Firenze, che ha prodotto una dichiarazione internazionale. Purtroppo, nessuna iniziativa concreta è stata portata avanti su questo argomento”.
In questo periodo si parla di wilderness, termine intraducibile con cui gli anglosassoni indicano la “natura selvaggia”. Esiste la wilderness in Italia?
“No. In Italia c’è una linea perseguita da alcuni enti, che va in questa direzione per ricrearla. Tuttavia è evidente che in un Paese con 189 abitanti per chilometro quadrato, seppure con grandi differenze a seconda delle regioni, i boschi devono convivere con le attività umane. Nel nostro Paese da sempre il bosco è legato all’agricoltura e al paesaggio, è sempre stato qualcosa senza il quale un’azienda agricola non avrebbe potuto vivere”.
La COP15 sulla biodiversità, appena conclusa, ha siglato un accordo per proteggere il 30% in più di biodiversità entro il 2030. Cosa può significare nella gestione dei boschi italiani?
“Il problema della deforestazione non riguarda l’Italia o il Nord Europa. È interessante confrontare l’incremento dei nostri boschi con gli scenari di deforestazione e desertificazione previsti nel 1990 dall’IPCC. Negli ultimi trent’anni – cioè più della metà dei cinquant’anni indicati dall’IPCC nel 1990 come riferimento per le sue prime proiezioni sugli effetti dei cambiamenti climatici – abbiamo assistito a un continuo processo di forestazione in Europa, con un ribaltamento delle previsioni iniziali. Il fenomeno avviene in tanti Paesi del mondo, soprattutto in Europa, sebbene non venga pubblicizzato, mentre in altre parti del mondo vi sono processi di deforestazione. Nonostante i boschi siano raddoppiati, le frequenti siccità e il crescente numero di frane dimostrano che solo il semplice aumento del bosco non può risolvere la questione climatica, o il problema del dissesto idrogeologico. Per questo, soprattutto da noi, ora il problema non è proteggere una porzione maggiore, ma gestirla in maniera attiva”.
Suggerisce un maggiore sfruttamento delle risorse forestali?
“Sì, e faccio un esempio: abbiamo raddoppiato i boschi, ma non sono diminuite le frane. Questo perché non bastano gli alberi a trattenere il terreno, anzi, il loro peso, come accaduto in numerosi casi, può essere di per sé causa di frane se nel suolo è presente una falda di scorrimento. E torniamo alle attività umane: in Liguria le frane hanno interessato i terrazzamenti abbandonati e coperti dal bosco, che invece, se oggetto di manutenzione, sono uno dei sistemi migliori per evitare le frane, situazione simile è quella accaduta ad Ischia. Quanto allo sfruttamento c’è poi da dire che in maniera ipocrita non tagliamo gli alberi ma importiamo legno dall’estero, quando una corretta gestione forestale farebbe bene alla nostra economia e ai nostri boschi, che sono risorse ambientali ed energetiche. Non è necessario avere un bosco non contaminato dall’uomo per usufruire dei servizi ecosistemici che può offrire: tipologie diverse di boschi derivanti da vari modelli gestionali possono garantire un’alta gamma di servizi”.
Tra i boschi che descrive, ce n’è uno che le sta particolarmente a cuore?
“I castagneti monumentali di Moscheta, che ben mostrano l’importanza del lavoro dell’uomo. Si tratta di piante di 300 anni, bellissime ed imponenti per architettura e dimensioni del fusto. Inoltre hanno un enorme valore culturale, poiché il castagno è come il maiale, non si butta niente ed è l’icona del nostro paesaggio forestale. Il castagneto da frutto, è il risultato dell’adattamento secolare dell’uomo a questi ambienti difficili. Nel descrivere questo come altri boschi cerco proprio di far capire che nella nostra cultura il bosco era vissuto, c’erano mestieri quotidiani ed era un luogo dove si incontravano persone, non solo i lupi. La società attuale è una società urbana, che ha separato il suo legame con la terra: questo libro non vuol cambiare la storia, ma vorrebbe ricordare che la lunga vita degli alberi mantiene le tracce del lavoro dell’uomo e che la storia del bosco non è solo tutto verde e natura”.
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[email protected] (Redazione di Green and Blue) , 2022-12-24 04:00:00 ,
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[email protected] (Redazione di Green and Blue) , 2022-12-24 04:00:00 ,
Il post dal titolo: Un atlante dei boschi italiani per riscoprire il loro valore culturale scitto da [email protected] (Redazione di Green and Blue) il 2022-12-24 04:00:00 , è apparso sul quotidiano online Repubblica.it > Green and blue